Guacamole dal sapore amaro…

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Calorico, costoso, grasso, così lo descrivono i detrattori. Però proteico, prezioso alleato di diete veg(etari)ane, versatile per preparazioni dolci o salate, ribattono i sostenitori. Oggetto della contesa, l’avocado, quel frutto cosiddetto esotico eppure molto comune nei nostri supermercati e sulle nostre tavole, ultimamente in voga per aperitivi trendy e pasti veloci, di utilizzo sempre più frequente anche nei ristoranti etnici. Come spesso accade quando alcuni alimenti hanno nelle diete un’impennata di gradimento, le domande che non lasciano il consumatore responsabile indifferente non tardano a emergere, soprattutto in relazione alla filiera che conduce quel prodotto fino al nostro piatto. Anche l’avocado è arrivato a questa soglia, e a quanto pare non supera a pieni voti l’esame, sorte che lo accomuna ad esempio alla quinoa, agli anacardi o all’olio di palma.

A denunciare le storture delle coltivazioni di avocado è il Mexico’s National Institute for Forestry, Farming and Fisheries Research, che attraverso la voce di uno dei suoi ricercatori, Mario Tapia Vargas, esprime l’urgenza ambientale di cui è causa nello stato di Michoacán, in Messico, la raccolta intensiva di frutti per l’esportazione e il commercio. “Persino dove le foreste non sono state visibilmente tagliate per fare spazio alle coltivazioni intensive degli avocado, i frutti stanno crescendo nascosti sotto i rami più grossi dei pini ed è solo questione di tempo perché li abbattano in via definitiva”. I rami di queste secolari conifere infatti rubano luce a un affare lucroso, oltre che alle recenti e preziose piantine che per il Messico, primo tra i maggiori esportatori di avocado, rappresentano una fonte notevole di introiti commerciali. A partire dai singoli contadini, che possono guadagnare cifre intorno ai 500 mila dollari all’anno semplicemente con una piccola piantagione. Una fetta di mercato largamente controllata, tra gli altri, anche dai cartelli della droga, le cui frequenti estorsioni vanno a favore di organizzazioni criminali come Los Caballeros Templarios. Ma si tratta anche di una questione di convenienza, dato che la pressione economica e la domanda di avocado fanno sì che sia molto più remunerativo piantare questo frutto anziché coltivare mais o altre qualità di cereali o, ça va sans dire, mantenere le foreste esistenti.

Per non parlare poi delle conseguenze sull’ecosistema e sulle forme di vita di queste aree, in particolare sulle farfalle monarca, già protagoniste loro malgrado di vicende dipendenti da scelte controverse o invece responsabili sul tema della biodiversità. Anche gli uomini sono destinati a subire gli effetti negativi di queste colture indiscriminate e in questi termini decisamente insostenibili: non parliamo solo di problemi legati alla gestione dell’irrigazione (le piante di avocado necessitano di ingenti quantitativi di acqua per la produzione dei frutti, operazione che determina un ovvio impoverimento delle risorse idriche a sfavore di flora, fauna e popolazione locale) e all’uso incontrollato di prodotti chimici, ma anche per esempio dell’ingente utilizzo di legno per l’imballaggio e il trasporto dei frutti.

Nel rapporto dell’Istituto di ricerca (2012) si evidenzia come tra il 2001 e il 2010 la produzione di avocado nello stato del Michoacán sia triplicata e le esportazioni decuplicate, aumenti che hanno contemporaneamente comportato la deforestazione di quasi 700 ettari di terreni, come riportato anche da The Guardian.

Non ci sono soluzioni facili e immediate a questioni che coinvolgono così tanti attori e così tanti interessi, che incrociano povertà e impoverimenti con ricchezze rapidamente moltiplicate a danno dell’ambiente. Certamente in parte una responsabilità la abbiamo anche noi come consumatori, come ci ricordano gli amici di Slow Food, evidenziando anche un aspetto che va senza dubbio considerato al di là della libertà di scelta su ciò che vogliamo mangiare: ci sono prodotti che, per arrivare sulle nostre tavole, devono compiere lunghi viaggi, alimentando l’inquinamento e ingigantendo a dismisura l’impronta ecologica dei nostri pasti. A questo proposito l’ideale sarebbe poter valorizzare i frutti del nostro territorio, non necessariamente rinunciando alla varietà: gli avocado, per esempio, arrivano adesso (tra l’altro freschi e non congelati per il trasporto!) anche da Calabria e Sicilia, anche se è più facile reperirli probabilmente nei mercati rionali o attraverso gruppi di acquisto solidale anziché sui banchi frutta della grande distribuzione. Come in molte occasioni, quindi, anche in questo caso informarsi per agire a beneficio di ciascuno e ciascuna è il primo passo da compiere per un mondo più rispettoso… del gusto e dei diritti.

Anna Molinari

Giornalista freelance e formatrice, laureata in Scienze filosofiche, collabora con diverse realtà sui temi della comunicazione ambientale. Gestisce il progetto indipendente www.ecoselvatica.it per la divulgazione filosofica in natura attraverso laboratori e approfondimenti. È istruttrice CSEN di Forest Bathing. Ha pubblicato i libri Ventodentro (2020) e Come perla in conchiglia (2024). Per la testata si occupa principalmente di tematiche legate a fauna selvatica, aree protette e tutela del territorio e delle comunità locali.

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