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Quinoa, questa sconosciuta
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Quinoa. C’è chi la pronuncia chinòa, chi la compra perché va di moda ma la abbandona poi nella dispensa non sapendo bene come utilizzarla, chi la snobba sugli scaffali dei supermercati disprezzandola come becchime. Pochi però ne sanno qualcosa, sulle sue origini, sulle sue proprietà e… sui suoi lati oscuri. Motivo in più quindi per fare un po’ di chiarezza.
A partire dal nome, che deriva dal Quechua “kinwa” o “kinuwa” e si legge chìnoa, con l’accento sulla i. Appartiene al genere Chenopodium, tipico di numerose specie perenni o a fioritura annuale conosciute come “piè d’oca”, che si trovano quasi in ogni parte del mondo e che fanno parte delle Amaranthaceae, famiglia della quale fanno parte anche barbabietole, spinaci, amaranto e rotolacampo. Definita come “pseudo cereale”, la quinoa viene coltivata specialmente perché i suoi semi sono commestibili, ricchi di fosforo, magnesio, ferro e zinco, e perché la pianta garantisce una buona resistenza anche nei terreni più secchi.
Negli ultimi anni la produzione di questa pianta, concentrata soprattutto nei territori andini, ha raggiunto livelli record grazie alla domanda europea e nordamericana che, oltre che per le sue proprietà nutritive, la apprezza anche perché adatta agli intolleranti al glutine, alternativa alla carne per vegetariani e vegani in quanto ricca di proteine vegetali, semplice da cucinare, povera di grassi (se non insaturi) e leggera per la digestione. Insomma, la quinoa è annoverata tra i “World’s Heathiest Foods”, uno dei cibi più salutari del mondo, definizione sulla quale anche le Nazioni Unite sono concordi. Le piantagioni si trovano per lo più in Perù e in Bolivia, oltre i 3000 metri di altitudine, negli altipiani desertici dove il sole batte violento e il terreno è sabbioso e inospitale ma dove la quinoa cresce veloce, e altrettanto velocemente dev’essere mietuta, prima che le piogge facciano rigermogliare i chicchi. Anche da queste parti infatti il cambiamento climatico fa vedere i suoi effetti, con piogge sporadiche molto più intense rispetto alla norma. Qui, nella stagione della raccolta, migrano decine di braccianti boliviani, che invadono le monoculture per un lavoro sfiancante che permette loro di mettere da parte qualche soldo (circa 100 dollari a settimana).
Delle oltre 50 mila tonnellate raccolte nel 2013 al ritmo di sacchi di 30 kg ciascuno portati a spalla dai raccoglitori, il 55% (e i dati sono in continuo aumento) è destinato al’esportazione verso i “Paesi occidentali”, tra cui anche l’Italia, che rappresenta uno dei maggiori importatori a livello europeo. Una scoperta recente per questa “metà del mondo”, ma un ingrediente base della dieta boliviana da migliaia di anni, coltivata fin dal decimo secolo in un delicato equilibrio che permetteva la compresenza di piante e animali.
Per quali ragioni allora l’aumento della domanda ha incrinato in maniera così preoccupante questa fragile convivenza che l’uomo ha saputo per millenni gestire e proteggere? Come spesso accade, la risposta è una, ed è sempre la stessa: massimizzare la resa. I lama e gli alpaca che venivano allevati nelle piane erbose sono spariti, sostituiti dalle monoculture. La dieta boliviana si è impoverita, perché si guadagna di più a venderla la quinoa, piuttosto che a mangiarla. La qualità stessa dei semi è peggiorata a causa dell’utilizzo massivo di fertilizzanti, che oltre che sul cereale e sul suolo minacciano gravi conseguenze anche sui condor, guardiani dei cieli il cui numero si sta sempre più assottigliando.
La quinoa è per le Nazioni Unite un’arma “perfetta per sconfiggere la fame”, proprio per le caratteristiche e le proprietà che abbiamo visto. Ma se Paesi come il Canada, la Cina, gli Emirati Arabi, il Marocco e persino l’Italia stanno pensando di produrla commercialmente causando un rapido calo del prezzo del prodotto, quale impatto potrebbe avere questo processo sulle comunità andine? Uno scenario drammatico si prospetta all’orizzonte, al quale far fronte necessariamente con strategie che garantiscano la sovranità alimentare delle popolazioni dipendenti dalla sua coltivazione. Questo significa potenziare necessariamente la sostenibilità dei processi di produzione e il trasferimento di tecniche che vadano in questa direzione, favorendone l’integrazione con gli allevamenti dei camelidi, utili sia da un punto di vista nutrizionale per la dieta locale sia per la fertilizzazione naturale dei terreni.
Considerazioni che però non si esauriscono in quinoa e lama, che da soli non rappresentano una dieta equilibrata, ma che prevedono anche l’attivazione di serre per la coltivazione di ortaggi e legumi.
L’allarme non è stato trascurato dalla stessa Cooperazione italiana, che nell’implementazione di un progetto specifico in collaborazione con la Ong Accra, ha posto ulteriormente l’accento sulla necessità di potenziare le agricolture familiari e le agricolture biologiche attraverso una serie di indicazioni e di gesti concreti che rappresentino un sistema di garanzia per la sicurezza alimentare in relazione a un alimento che per la Bolivia ha anche un profondo valore culturale. Iniziative che quindi, ancora una volta e in maniera imprescindibile da uno sviluppo sostenibile e a misura d’uomo, non possono trascurare aspetti legati alla preservazione della biodiversità, alle coltivazioni integrate in sostituzione alle monoculture, alla diversificazione delle produzioni volte a proteggere quella Madre Terra per cui le popolazioni andine nutrono ancora, nel profondo, un riverente rispetto.
Anna Molinari

Giornalista freelance e formatrice, laureata in Scienze filosofiche, collabora con diverse realtà sui temi della comunicazione ambientale. Gestisce il progetto indipendente www.ecoselvatica.it per la divulgazione filosofica in natura attraverso laboratori e approfondimenti. È istruttrice CSEN di Forest Bathing. Ha pubblicato i libri Ventodentro (2020) e Come perla in conchiglia (2024). Per la testata si occupa principalmente di tematiche legate a fauna selvatica, aree protette e tutela del territorio e delle comunità locali.