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COVID-19 lontano da casa: sguardi sull’Africa
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Foto: Lucia Michelini ®
«In Africa fa troppo caldo», o ancora «tanto in Africa sono giovani e forti», queste le frasi che si sentono spesso pronunciare nei riguardi della presenza del coronavirus nel continente nero. Ma di Africa, purtroppo, in Italia si parla pochissimo e in modo molto superficiale.
Basta guardare i principali canali di informazione, da quelli pubblici a quelli privati, digitali o cartacei: quando si sente nominare l’Africa? Sì e no in seguito ai tristi sbarchi dei migranti sulle coste italiane o in occasione delle delinquenze perpetrate dai terroristi nel Sahel. Per il resto è veramente faticoso arrivare a sapere cosa sta capitando oltre il Mediterraneo in questi tempi di Covid-19, pandemia che, anche se nel male, ci sta unendo tutti.
Con lo scopo di avere uno sguardo su come sia percepito il coronavirus fuori dai confini italiani, i rappresentanti dell’Associazione Camerunensi Bellunesi accettano di scambiare due parole.
Emmanuel Avebe, segretario dell’Associazione, afferma che fortunatamente i casi in Camerun non sono così tanti, anche se rimane uno dei posti più colpiti del continente. Nel mondo i contagi sono più di 10.4 milioni, in Africa oltre 400.000 e in Camerun circa 12.500, accertati.
Quando gli chiedo cosa ne pensa del motivo per cui per il momento i contagi nel suo Paese d’origine siano inferiori rispetto a quelli registrati in molti Paesi Europei dice che semplicemente, a differenza delle numerose sciocchezze che sente dire sulla robustezza della pelle nera e quant’altro, molti Paesi africani hanno semplicemente reagito per tempo: «Anche se in Africa siamo più poveri, non vuol dire che per forza non sappiamo attivarci di fronte a una minaccia». Infatti, in molti Stati africani le frontiere con l’estero sono state chiuse repentinamente, evitando così l’ingresso di persone già infette e la propagazione del contagio.
“Il Governo ha bloccato le frontiere aeree, ma per fortuna non ha confinato la gente in casa troppo a lungo, cosa che avrebbe causato una strage molto peggiore rispetto a quella del virus considerando che l’80% della popolazione vive di attività informali. In questo modo sono state contenute le tensioni sociali come invece accaduto in Nigeria, Sud Africa, Uganda e Kenya ”, continua Emmanuel. “A volte chiudo gli occhi e immagino cosa sarebbe successo se il Camerun fosse stato colpito come l’Italia. Ci è andata bene finora, sarebbe potuta andare meglio se il Governo avesse sospeso ancora prima i voli con l’estero (ndr: il 18 marzo è stata annunciata la chiusura delle frontiere aeree dal Primo Ministro del Camerun). A marzo, quando i camerunensi espatriati hanno sentito la notizia della chiusura dello spazio aereo si sono affrettati a rientrare, introducendo così il virus”.
Ma in quale settore del Paese la presenza del virus sta avendo più ripercussioni negative? “Il Camerun vive molto di terziario e quindi il turismo ne sta risentendo molto. Ma anche il commercio ha preso un brutto colpo”, spiega Simonet Kum, vecchio presidente dell’Associazione Camerunensi Belluno e oggi consigliere.
“Il nostro Paese è uno dei più ricchi dell’Africa centro-occidentale, esportiamo molti beni, banane, cacao, caffè, e ovviamente petrolio. Con le frontiere chiuse le esportazioni sono diminuite, questo a discapito non solo del Camerun ma anche di vari Stati che orbitano attorno a Yaoundé e da cui dipendono economicamente, come il Ciad, il Ghana, la Repubblica Centrafricana, il Gabon e il Congo ”, continua Simonet.
Dal punto di vista sanitario le strutture ospedaliere stanno facendo molti sforzi, ora ci sono più persone sottoposte a screening e c’è un centro di depistaggio in tutte e dieci le regioni, anche se la possibilità di curarsi in modo adeguato rimane molto difficile. “Sai, da noi la medicina tradizionale è ancora molto sentita, ne facciamo uso anche in Italia. Crediamo molto nel potere di alcune piante: kenkeliba, moringa, zenzero, limone, aloe vera e aglio. Però in Camerun a volte la medicina verde è talmente venerata che parte della popolazione arriva a dubitare di quella moderna”, spiega Emmanuel. In questi giorni, infatti, c’è un gran parlare delle proprietà delle foglie di artemisia e in Camerun la gente sta ricominciando a coltivarla perché si dice che possa guarire i sintomi del virus, anche se a livello scientifico non c’è nessuna conferma in merito.
Nel mondo sono state organizzate diverse attività di sensibilizzazione sul Covid-19, campagne informative, gruppi di artisti che in pochi giorni hanno lanciato nuove canzoni, raccolte fondi, slogan ecc. Risposta più che positiva, ma resta impossibile non chiedersi perché solo ora? Serviva l’ennesima malattia per vedere un riscontro di tale portata? Probabilmente sì, assieme al fatto che questo virus è nuovo ed ha toccato anche gli Stati ricchi. E se l’Occidente è spaventato, il Sud del mondo lo è ancora di più, dove, oltre al Covid-19, rimangono la malaria, l’HIV, la tubercolosi, giusto per citare qualche esempio. In Camerun la malaria fa ancora troppe vittime ed è questo probabilmente il prossimo male da temere con la stagione delle piogge alle porte, assieme alla malnutrizione di cui l’Occidente con le sue pance piene sembra non ricordarsi.
Provando a chiedere come abbia vissuto la quarantena in Italia, Emmanuel risponde: “È stato difficile, spaventoso, come per tutti. I nostri bambini hanno sofferto, noi abbiamo una fratellanza africana ancora molto forte e i più piccoli si sono sentiti soli. Per due mesi si è rotta quella coesione con la nostra comunità che per noi è fondamentale. Ma per fortuna, grazie alla bravura delle maestre, non hanno perso molta parte del programma scolastico e per vedere i compagni si sono organizzati con delle ricreazioni virtuali”.
“Io invece ho continuato a lavorare – continua Emmanuel, che ha un incarico come O.S.S. presso una casa di riposo – ma senza paura perché nella struttura dove lavoro facciamo tamponi in continuazione e la direzione ha chiuso la struttura in tempo”.
Prima di lasciarci, un accenno ai recenti episodi di discriminazione razziale negli USA è d’obbligo. “E’ una cosa che mi fa molto male. La prima volta che sono arrivato a Belluno – ricorda Emmanuel – era l’inizio del 2000, le signore mi guardavano dalle finestre per capire chi fossi e in autobus la gente si spostava lontano da me. Ma non voglio dare la colpa agli italiani, questo Paese è poco abituato ai vasti mosaici culturali che caratterizzano, al contrario, le vecchie potenze coloniali. Oggi però le cose vanno meglio, il razzismo non lo sento più, mi sento integrato, gli anziani con cui lavoro mi vogliono bene e nei momenti di pausa per farli felici gli suono il piano”, sorride. “Qualche difficoltà, tuttavia, permane, soprattutto sul piano delle possibilità. Io ho una laurea in scienze veterinarie, ma non ho mai potuto esercitare il mio mestiere in Italia, sia perché il mio titolo di studio non è riconosciuto e anche perché a volte ho la sensazione che essendo africano la gente non creda in me, anche se le cose le so fare”.
Le competenze di tanti camerunensi sono spesso sottovalutate in Italia, per questo appena possibile cercano di andare altrove, dove il colore della pelle non sia sinonimo di inferiorità. “E’ la percezione il vero il problema, la percezione blocca tutto. L’Africa non è soltanto Lampedusa. Sottovalutare una persona per le sue origini è pura ignoranza”, conclude Simonet, che a luglio lascerà l’Italia per un incarico di lavoro in Djibouti, con le Nazioni Unite.
Lucia Michelini

Sono Lucia Michelini, ecologa, residente fra l'Italia e il Senegal. Mi occupo soprattutto di cambiamenti climatici, agricoltura rigenerativa e diritti umani. Sono convinta che la via per un mondo più giusto e sano non possa che passare attraverso la tutela del nostro ambiente e la promozione della cultura. Per questo cerco di documentarmi e documentare, condividendo quanto vedo e imparo con penna e macchina fotografica. Ah sì, non mangio animali da tredici anni e questo mi ha permesso di attenuare molto il mio impatto ambientale e di risparmiare parecchie vite.