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A piedi scalzi
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Foto: M. Canapini
Nel dicembre 2019, seguendo le principali rotte dei migranti/profughi lungo i confini d’Europa, ho trascorso un breve periodo a Lampedusa, focalizzando l’attenzione su tanti elementi rivelatori: lapidi, dissensi, barconi confiscati, parole accoglienti, denunce.
L’isola. Nel pezzo di roccia che cinge la banchina d’attracco Cavallino Bianco prendono forma due incavi, utilizzati dai migranti in fuga. “Ma dove potrebbero andare?” si chiedeva il pescatore Stefano ieri sera. “Una sera d’estate ero seduto con mia moglie sugli scogli di Punta Salina. Un barcone con cinquecento migranti è arrivato in porto; alcuni ci chiedevano a gesti concitati ‘dov’è la stazione dei treni?’. Ciò fa capire più cose di quel che credi. Col mare mosso alcuni approdano allo scoglio Lampione, che equivale all’isolamento. Truffati o meno, spesso credono di toccare terraferma. Gli sguardi nel momento in cui capiscono di trovarsi sopra un’isola sono spaventosi”.
Calpesto per ore, giorni interi la bella Lampedusa. Da Punta Parisi a Capo Grecale, scendo nelle insenature a U, tocco edicole religiose, scavalco divieti e recinzioni. In uno scambio continuo di liquidi la pioggia si amalgama al mare, perforando i rottami delle carrette confiscate. Motori fusi, giubbotti di salvataggio rosicchiati, lattine di birre tunisine. Ripenso alle storie dell’orrore, ai crani spaccati per tentare d’evadere dalla fine inevitabile del topo. Ripenso ai pescatori che si radunano al Caffè del Porto o al Café Amira a Zarzis, intimoriti nell’uscire in mare dopo i naufragi: traumatizzati all’idea di raccogliere, ancora, ammassi di carne e ossa. “Quando accade, il pesce va tutto buttato via. È un trauma latente, collettivo, un senso di lutto perenne sentito da una comunità, la nostra, ferita e disorientata” direbbe Stefano al terzo bicchiere.
Porto M (M come Memoria, Migrazioni, Mediterraneo, Militarizzazione) è la sede del collettivo Askavusa ed è composto da una sala in cui sono esposti gli oggetti appartenuti ai migranti di passaggio sull’isola, un piccolo bar e torrioni di libri usati. Askavusa (‘a piedi scalzi’) nasce a Lampedusa nel 2009. Da allora continua a occuparsi di cultura, migrazione, ambiente, memoria, militarizzazione, servizi di base. Anima e membro fondatore del collettivo è Giacomo Sferlazzo: cantautore, attivista politico, marionettista, assemblatore di materia, barba da mangia-fuoco. Ci conosciamo dentro una nube di fumo. “La militarizzazione in Sicilia comincia dopo la Seconda guerra mondiale e arriva fino a oggi, in un mondo governato dal capitale in cui sopravvivono sacche rade di Resistenza. Fino ai primi anni Settanta le migrazioni nel Mediterraneo non erano un problema di ordine pubblico, ma a metà degli anni Ottanta si è arrivati a una totale libertà di movimento per le merci, ma non per le genti. Il primo sbarco a Lampedusa avvenne nel 1992. Dal 2002 sbarcano circa diecimila migranti all’anno; la frontiera si è manifestata gradualmente nella sua durezza: i CIE, le telecamere, il filo spinato. Con Frontex, le frontiere non vengono più amministrate dai singoli Stati ma da un’agenzia che più cresce l’emergenza più vede alzarsi i profitti. Uno dei momenti più redditizi è stato proprio il naufragio del 3 ottobre. Riteniamo che il problema delle migrazioni contemporanee nell’area del Mediterraneo si debba far derivare dalle leggi che l’UE ha imposto agli Stati membri per aderire al Mercato Interno Europeo e a Schengen. Si possono pagare fino a diecimila euro e impiegare anche molti anni prima di arrivare in Europa. Spesso si scappa da una guerra, altre volte dallo sfruttamento del proprio territorio, altre volte si è semplicemente alla ricerca di un lavoro. Il problema sta a monte, perché queste persone partono? Perché persiste uno stato di schiavitù dove l’individuo diventa merce. Si potrebbe prevenire la morte di centinaia di persone? Perché eventuali morti dovrebbero far comodo? Forse per la notizia, per mantenere lo stato di emergenza attivo, con tutti i vantaggi che ne conseguono (droga, propaganda, traffico di armamenti). Quanto è perverso e studiato il reality show? Quanto feroce il Grande Fratello? E la notizia del naufragio, quanto può circolare, durare essere condivisa, postata online, catalizzando l’opinione pubblica? Se i soldi spesi nella militarizzazione delle frontiere (in nome della Sicurezza) e nei centri di detenzione per migranti (chiamata Accoglienza) fossero stati impiegati nella regolarizzazione dei viaggi e nelle politiche sul lavoro, sicuramente non avremmo visto morire migliaia di persone. Dal nostro punto di vista, il problema rimane il sistema economico attuale che ha fatto del profitto il fine ultimo di ogni azione. Il capitalismo neoliberista, di cui l’UE è una delle espressioni politiche, fa ogni giorno migliaia di vittime che non hanno spazio nei Tg e nelle rappresentazioni di Stato, non servendo a giustificare alcun tipo di politica: ne sono semplicemente le vittime. Nessuno parlerà di loro, nessuno nominerà i loro nomi. Una delle cose più aberranti della strage del 3 ottobre è proprio questa: le vittime vengono continuamente evocate divenendo uno strumento per giustificare le politiche di quei soggetti responsabili delle loro morti. Questo è il vero obiettivo coscienzioso: superare il capitalismo. Abbiamo avuto forti contrasti con gli isolani, ma la percezione è cambiata, poiché gradualmente abbiamo unito i loro diritti ai nostri diritti. Siamo schiacciati dal sistema, siamo tutti sfruttati, privatizzando l’acqua e i servizi di base inducono anche gli italiani a partire. Occorre purificarsi dagli schieramenti buoni-cattivi o bianchi-neri che fanno tanto comodo all’opinione pubblica. L’emigrazione si inserisce in un sistema che vuole tutto ciò, che crea appositamente un problema per poi offrirti la soluzione. Un sistema che risucchia vite umane come fossero numeri. La frontiera ha due scopi: quello militare e quello economico. Con Askavusa tentiamo di aprire un punto di vista che vada oltre il dibattito semplicistico Ong-Salvini” dichiara adagio Giacomo, arrovellandosi la punta della barba nera. Una voce di rivalsa la sua, carica di indignazione, estraneo al coro delle rappresentazioni odierne. Nello spazio circostante, che è luogo e non museo, sono conservati tutti gli oggetti rinvenuti all’interno dei barconi e salvati dalla discarica. All’interno di uno dei natanti abbandonati nel Cimitero delle Barche (tra il campo sportivo e il Molo Favarolo), nel 2009 Giacomo trova una scatola contenente lettere, preghiere e fotografie provenienti dall’Etiopia. Oggetti che qualcuno aveva ritenuto indispensabili da portare con sé. Il contenuto della scatola, insieme a utensili da cucina, diari, mollettoni, sono i tasselli che, accumulatisi nel tempo, compongono il mosaico di Porto M. “Questo avamposto non è statico, è un magma che ribolle sempre, è un processo, è un rapporto, non è di certo un museo. Non c’è quindi forma definitiva, che immobilizzerebbe gli oggetti in un ordine imposto, privandoli della loro energia. Ogni elemento può essere spostato, trasformato da chi questo spazio lo attraversa e lo vive. Gli oggetti, tutti gli oggetti, trattengono e rilasciano energia” dice ancora, aprendo metà anta e accogliendo i primi visitatori serali.
Nostra Signora delle Coperte isotermiche
aiutaci a rimanere umani mentre sganciamo bombe
schiacciando una tastiera e sorseggiando un caffè.
Aiutaci a salvare coloro che non riusciremo a uccidere bombardando.
E quando li rinchiuderemo nei centri di detenzione,
Facceli accudire come il Dio degli eserciti comanda.
Nota: L’intervista al Collettivo Askavusa continua nel prossimo articolo.
Matthias Canapini

Matthias Canapini è nato nel 1992 a Fano. Viaggia a passo lento per raccontare storie con taccuino e macchina fotografica. Dal 2015 ha pubblicato "Verso Est", "Eurasia Express", "Il volto dell'altro", "Terra e dissenso" (Prospero Editore) e "Il passo dell'acero rosso" (Aras Edizioni).