Dalle chiese alle carceri, la Spoon River di Springsteen

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New Jersey, Rutgers State University. La mia attenzione viene catturata da un corso di teologia inserito all’interno dei Byrne Seminars, proposte introduttive per i nuovi iscritti. Non un qualunque avvicinamento allo studio della Sacra Scrittura, ma un vero e proprio modulo di teologia springsteeniana. Niente di strano a ben vedere, se consideriamo i natali di una delle più significative e longeve (quanto a presenza sui palcoscenici internazionali) personalità del rock contemporaneo e se conosciamo (anche poco) i testi delle sue canzoni. Niente di strano nemmeno che un’Università del New Jersey dedichi, grazie alla proposta del professor Azzan Yadin-Israel, un corso universitario al suo “eroe nazionale”, inquadrandolo all’interno di quella tradizione poetica “che situa lo scrittore tra le figure di rilevanza religiosa, il cui messaggio non ha effetti sulla salvezza trascendente ma, piuttosto, trasforma la realtà terrena”. Obiettivo: riflettere sulla reinterpretazione springsteeniana di alcuni “leitmotiv biblici”, sulla redenzione immanente che può avvenire in ognuno, sulla commistione di elementi secolari e sacrali che fluttuano in battere e levare nelle canzoni del Boss, da Greetings from Asbury Park, N.J. (data 1973, 40 anni di storia che la rivista Rolling Stone annovera tra i migliori 500 album di sempre) a Wrecking Ball (2012).

In effetti Bruce Springsteen potrebbe vestirsi di molti appellativi, da quello di trascinatore di grandi folle, a quello di uomo politicamente impegnato, a quello di grande narratore. Un cantastorie con gli anni di mia madre e la forza prorompente di un giovanotto (generazioni d’altro tempo); una persona che ti coinvolge, ti ammalia, ti pone problemi, ti fa ridere e piangere parlando di quella vita che sottovoce sono in molti ad abitare. Perché trarre spunto allora da un’iniziativa proveniente dall’ambito accademico d’oltreoceano? Perché la proposta sposata dalla Rutgers University coglie nel segno: in un mondo allo sbaraglio che perde di vista valori e ideali e che, quando invece riesce a tenerseli stretti, spesso li pone in una dimensione extra-ordinaria e irraggiungibile, le canzoni di cantautori come Bruce Springsteen sono uno strumento che facilmente raggiunge i cuori e che, in una commistione di note e parole difficile da scindere, porta con sé il messaggio forte di una redenzione quotidiana, fatta di giornaliere traversate del deserto, terre promesse, peccati e perdono. Interessante è che il Boss faccia molto più spesso riferimento alle storie del Vecchio Testamento anziché a quelle del Nuovo. Da un punto di vista letterario, Springsteen riprende spesso personaggi e storie della Bibbia, ricontestualizzandoli in un paesaggio tutto americano. Da Adam raised a Cain, in cui si tocca il delicato tema delle relazioni imperfette tra padri e figli, al passaggio dall’adolescenza all’età adulta nella tormentata The promised land, a quei luoghi “lassù da qualche parte” a cui si accenna in Into the fire, scritta dopo la tragedia dell’11 settembre e intrisa di reminiscenze dei libri di Elia. Nell’ultimo album si parla addirittura apertamente di fede, senza però tralasciare mai la buona abitudine di raccontare la “santità dei piccoli”, dei nothingman, dei genitori che lavorano nelle factories e guidano used cars, dei figli ribelli ai padri e alle guerre di Indipendence Day e delle introduzioni a The River (Live 1975-1985), dei migranti di The Line e Sinaloa Cowboys, delle periferie industriali come Youngstown, delle prostitute di Reno e degli innocenti lost in the flood.

Io però sono di parte e ve lo scrivo prima che arriviate in fondo a queste righe. Ascolto Springsteen da una vita come vate di vita, ne accetto le incoerenze e le contraddizioni, ne ammiro la profondità e la leggerezza, ne assecondo gli inviti cantando in macchina mentre vado a lavoro, considerandolo insomma una di quelle persone “normali” che racconta di un mondo (non solo di un’America) familiare, sfilacciato, allo sbando, ribelle, con una gran voglia di riscatto e di rinascita, e probabilmente proprio per questo motivo risulta molto più vicino e comprensibile, perché fatto di paesaggi remoti eppure nitidi, ritratti, storie (tra le quali anche quella di un figlio unico come Gesù). E soprattutto perché parla di uomini e donne come tanti se ne incontrano anche nel nostro Paese, autenticamente umani, in difficoltà, con sogni neanche troppo grandi e lontani, ma a volte comunque irraggiungibili. Persone che nella propria ordinaria quotidianità diventano eccezionali quanto più sono locali, silenziose, lontane dai riflettori. Proprio attraverso storie particolari il poeta-Springsteen tratteggia anni, politiche, paure e speranze dell’umanità ed è forse per questo che chi va ai suoi concerti si sente così a proprio agio, con quell’atmosfera da festa campestre tra amici, a cantare a squarciagola “Born in the U.S.A.” pur essendo nato altrove per chilometri e destino.

Insomma, una coralità raggiunta proponendo, attraverso molteplici singolarità, “strutturate comunità mentali” che aiutano a capire meglio il mondo attraverso storie minute,  sbagliate, corrotte eppure commoventi (una su tutte, Highway Patrolman), palcoscenico del mondo abitato da vagabondi, adolescenti, stranieri, disperati, omosessuali, famiglie, speranze, frustrazioni, amori, fabbriche dismesse o abbandonate, narrazioni raccolte dentro nomi, luoghi e vicende della tradizione e della storia recente.

Si potrebbe dire che attraverso il “potere del particolare” il Boss smussi confini arrotondando gli spigoli e, personaggio dopo personaggio, territorio dopo storia, ci conduca in un mondo in cui l’identità si plasma su barriere porose o, sorprendentemente, su nessuna addirittura.

Non solo quindi una serie di spunti per rileggere il background religioso con cui il mondo occidentale deve per forza confrontarsi, ma anche uno stimolo per provare a non voler essere di necessità membri di una comunità artificialmente globalizzata, ma per fare un viaggio in profondità dentro le proprie radici e tradizioni, assolutamente non con l’intento di prosciugarne il potenziale alzando muri e chiudendosi in se stessi, bensì con l’obiettivo opposto: quello di fare in modo che quelle radici nutrano rami e foglie. Non perdere la propria identità ed essere credibili, questo il punto di partenza per fare parte di una comunità molto più ampia, questo il filo conduttore delle canzoni del Boss, in uscita in questi giorni con il nuovo singolo High Hopes, cover degli Havalinas, e a gennaio 2014, ormai è ufficiale, con il nuovo omonimo album.

Is there anybody alive out there?

Sì, ci siamo, e aspettiamo il racconto di nuove piccole grandi esistenze, di alt(r)e speranze.

Anna Molinari.

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