La disabilità non ha bisogno di zucchero, ha bisogno di verità

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Immagine: Unsplash.com

Ogni volta che la parola “disabilità” entra in gioco, scatta un riflesso condizionato: tutto diventa automaticamente bello, buono, giusto. Un ristorante con camerieri disabili? “Che emozione, che gesto nobile”. Una persona in carrozzina che parte per un’avventura estrema? “Che forza, che esempio per tutti”. Un ragazzo con disabilità che apre un’attività? “Che meraviglia, che coraggio”. E basta. Perché non è sempre così. Questo racconto zuccherato è una trappola. Non serve alle persone con disabilità, serve a chi applaude: per sentirsi buono, moderno, inclusivo. È ipocrisia mascherata da ammirazione. Perché se tutto quello che tocca la disabilità diventa favola edificante, allora non stiamo parlando di inclusione: stiamo mettendo zucchero sopra la realtà.

La verità è molto più semplice e molto meno comoda: le persone con disabilità non sono eroi, santi o mascotte. Possono essere competenti e generose, ma anche arroganti, antipatiche, sgradevoli. Esattamente come chiunque altro. Eppure quando lo dico ai convegni vedo sguardi scandalizzati, come se avessi bestemmiato. Perché la società preferisce la persona con disabilità sempre sorridente, resiliente, ispirante. In altre parole: innocua. E poi ci sono gli episodi quotidiani che fanno sorridere amaramente. Conoscenti che ti segnalano un “ragazzo disabile bravissimo, che sta facendo cose incredibili” e che quindi bisogna aiutare a tutti i costi. Oppure l’ennesimo personaggio che devo per forza incontrare come direttore della Cpd-Consulta per le persone in difficoltà, non perché abbia realizzato davvero qualcosa di grande, ma solo perché la sua start up “ha a che fare con la disabilità”. Vai a vedere, e scopri che è un’operazione inconsistente, una scatola vuota ben confezionata, che però ottiene articoli sui giornali, like sui social e pacche sulle spalle. Perché? Perché è sulla disabilità, e quindi dev’essere per forza bello, buono e giusto...

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