Palestina: una lenta e drammatica espulsione

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Gerico, Cisgirdania - Foto: Unsplash.com

di Chiara Cruciati*

È facile perdersi nel labirinto di vicoli che è il campo profughi di Dheisheh. Un chilometro quadrato, 15mila abitanti. Si entra da piccole vie che sboccano sulla strada principale, quella che collega Betlemme al sud della Cisgiordania occupata. Si inerpica in salita, su una collina affittata dall’Unrwa, l’Agenzia Onu per i rifugiati palestinesi, per 99 anni. Le terre sono di proprietà di famiglie palestinesi di Doha, il sobborgo di Betlemme che sorge al di là della strada. Ce lo si potrebbe immaginare grigio e decadente, dopotutto è un campo profughi. Ma Dheisheh è colorato: il blu acceso delle saracinesche delle drogherie, i murales con le vignette del fumettista Naji al-Ali e gli slogan politici, i minuscoli giardini che i rifugiati si sono inventati nei cortili tra una casa e l’altra. C’è di tutto, ulivi, alberi da frutto, rose.

Il senso di temporaneità aleggia comunque. Questa è solo una tappa, dicono i rifugiati, prima del ritorno a casa. È la stessa frase che campeggiava sull’arco di ingresso al campo profughi di Jenin, profondo Nord della Cisgiordania. Quell’arco, iconico, è stato abbattuto dall’esercito israeliano in uno degli innumerevoli raid che da mesi compie ogni notte nei campi e nelle principali città palestinesi. Ormai, in tanti angoli di Cisgiordania, non si dorme dal 7 ottobre. «Non che prima fosse tanto meglio, entravano spesso per compiere arresti. Ma adesso avviene praticamente ogni notte. Io dormo vestito. Lo so che prima o poi verranno a prendermi». Moataz ha 36 anni, tre figli e sette anni di prigione alle spalle. È membro del Comitato popolare del campo, forma di autogestione che nei Territori occupati palestinesi è fiorita durante gli incredibili anni della Prima Intifada: le comunità si gestivano da sé, dalla scuola alla sanità alla distribuzione clandestina del cibo che Israele faceva entrare col contagocce. «Chiunque svolga un qualsiasi tipo di attività culturale o politica è a rischio arresto – continua Moataz, seduto alla sua scrivania nella sede del Comitato popolare – Hanno già arrestato cinque nostri membri. Poche settimane fa hanno arrestato Khaled Seifi, il responsabile del centro Ibdaa. Entrano in casa, umiliano le persone davanti ai loro figli: li fanno spogliare, li bendano, gli legano mani e piedi, gli urinano addosso».

Una pressione militare e psicologica, individuale e collettiva, che si unisce a quella economica: dal 7 ottobre la Cisgiordania è chiusa, le comunità e le città separate da checkpoint, blocchi di cemento, montagne di terra. Spostarsi è un’esperienza ancora più surreale del passato. Il lavoro è evaporato, si sopravvive di lavoretti, reti di solidarietà, salari (decurtati) dei dipendenti pubblici. Ogni famiglia ha qualcuno che lavora per l’Autorità nazionale palestinese, un elefante burocratico da oltre 150mila dipendenti – insegnanti, medici, poliziotti, vigili del fuoco – che è il triplo dell’effettiva necessità. Per l’Anp è il modo migliore di tenere a bada una popolazione sull’orlo dell’esplosione. Difficile dire quando l’esplosione arriverà, ma che arrivi non sembrano esserci dubbi. Cisgiordania e Gerusalemme Est vivono sul baratro. La rabbia monta insieme all’impotenza. La scomparsa di corpi intermedi, i partiti politici laici e progressisti, fa crescere Hamas nei consensi a parole e lascia alla base il compito di organizzarsi. Lo fa, con associazioni, comitati popolari, che non riescono però a coagulare un numero significativo di persone...

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