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Ragionare sul dolore maschile: identità “rattrappite”
Salute mentale
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Stefano Ciccone - Foto: fornite dall'intervistato
Maschile Plurale è un’associazione di uomini presente in tutta Italia e che nasce negli anni ’80 da una rete di gruppi informali che in parte ascrivevano ai movimenti per la pace, in parte ai movimenti della religiosità critica. È una realtà che opera su tre livelli: il lavoro dei gruppi che condividono il proprio vissuto; il lavoro nelle scuole e di formazione degli operatori - dalla polizia all’esercito, passando per il pronto soccorso; ed il lavoro con i centri che operano con gli autori di violenza. Per l’associazione abbiamo intervistato Stefano Ciccone, che da anni riflette sul tema.
Partiamo dall’attualità: nei movimenti pacifisti si è riflettuto sul collegamento tra violenza e modelli maschili. Tu vedi un collegamento tra la violenza maschile e le guerre che stiamo attraversando?
Come Maschile Plurale ne abbiamo più volte riflettuto (ad esempio qui, ndr). C’è tutta una ricerca storica che parla di quanto i nazionalismi di inizio secolo abbiano scavato dentro la crisi dell’identità maschile nel passaggio di tra 1800 e 1900, quando il fantasma della perdita dell’identità maschile è diventato uno dei meccanismi per portare migliaia di giovani uomini ad inseguire la guerra come luogo di rifondazione della propria virilità.
Ed oggi?
Soprattutto in Occidente, le spinte dei nazionalismi e dei populismi regressivi ripartono in parte da questo elemento di crisi dell’identità maschile. Le risorse simboliche, i riferimenti identitari che la cultura patriarcale e la tradizione maschile offrono agli uomini oggi non sono in grado di fornire gli strumenti per risignificare il proprio stare al mondo. Questo porta molto spesso a cercare una lettura di tipo paranoico, dove si produce una rappresentazione di quello che succede attribuendo la causa della mia crisi personale ad un complotto, o un nemico esterno.
Cosa si è inceppato?
È entrato in crisi il modello del cittadino neoliberale, imprenditore di sé stesso. Questo sogno si è ribaltato: il modello “io mi sono fatto da solo” è diventato “sei colpevole di non esserti fatto da solo”. E questo produce sofferenza ed anche una ferita identitaria, perché il maschile ha fatto del lavoro il luogo di costruzione della propria identità; della performance la verifica della propria virilità. Il maschile è una costruzione sociale, che fa parte della produzione dei modelli di genere; e che genera un privilegio, una forma di dominio e di potere. Però genera anche una pressione di verifica della mia identità maschile, della mia virilità che è sempre precaria.
Voi infatti parlate di precarietà della virilità.
L’idea che mi si dica “sii uomo” implica una continua ansia di conferma della propria virilità che paradossalmente produce un fenomeno di gregarismo e conformismo maschile. Io devo dimostrare di non essere una donna, quindi devo essere come tutti gli altri uomini - stare dentro una dinamica maschile che è la competizione sportiva, la sfida al divieto, la rimozione della vulnerabilità. Oggi il maschile diventa una questione politica, cioè una delle categorie per leggere la crisi ed i fenomeni che attraversano la crisi - e che producono forme identitarie costruite tutte su due elementi. Da un lato il vittimismo aggressivo –le associazioni dei padri separati, il complotto contro di noi, …; e dall’altro la trasgressione conformista cioè la “dittatura del politicamente corretto”. Penso a personaggi pubblici come Cruciani o Sgarbi, che presentano la battuta omofoba o misogina come il segno di una trasgressione rispetto al moralismo del politicamente corretto. Il tema è mostrare come quella battuta omofoba o misogina sia tutto meno che una trasgressione: è la riproduzione stereotipata del modello tradizionale.
Altre narrazioni a cui ci si rifà?
In genere si mescolano un bisogno di riflessione su di sé ed un richiamo identitario. Questi si incontrano nel racconto della crisi come frutto della perdita di un ordine. Qui convergono punti di vista provenienti dalla vulgata del pensiero psicoanalitico, che dicono che con l’evaporazione della norma paterna si produce un disordine nei comportamenti maschili, dove il maschile è la capacità di disciplinare le emozioni e le pulsioni. La fine di questo mondo produce comportamenti maschili violenti. Da qui a una sorta di nostalgia per i veri uomini, che virilmente dominavano le proprie emozioni e che quindi rispettavano le donne.
La crisi letta nuovamente in termini nostalgici.
Sì; questo è interessante perché dimostra che la crisi non è rimovibile, ci si misura con un cambiamento ineluttabile. Gli stessi padri separati rappresentano una novità. Sono padri che mettono in mostra la sofferenza per la separazione dai figli, il loro desiderio di relazione con i figli - cosa che la generazione dei miei padri non avrebbe mai fatto.
Una continua danza tra vecchio e nuovo.
Ci sono tante novità nelle relazioni tra i sessi, nella genitorialità, nel rapporto con il corpo; se non riusciamo ad offrire agli uomini risorse per rappresentare un cambiamento desiderabile diverso dal modello tradizionale, continueremo ad offrire una rappresentazione del cambiamento come minaccia. Un esempio è quello dei “mammi”. Se chiamiamo “mammi” i padri, continuiamo a pensare che un uomo che si prende cura dei figli simula il comportamento materno – a cui noi attribuiamo un valore diverso. Credo ci sia un nesso molto preciso con la reazione violenta maschile individuale nelle relazioni; infatti questa esplode alla separazione: che è quando gli uomini si misurano con la finzione della loro rappresentazione. Ovviamente tutti soffriamo in una separazione, perché però questa cosa produce una pulsione così distruttiva e spesso autodistruttiva per questi uomini? Forse perché mette in discussione una finzione identitaria.
Nella tua descrizioni gli uomini subiscono passivamente un cambiamento che non si riesce a descrivere come desiderabile per la mancanza di risorse simboliche. Ti sembra che qualcosa si stia muovendo anche in chiave creativa e propositiva?
Penso ci siano moltissime sperimentazioni individuali, il problema è che tutto questo non assume una visibilità sociale e quindi non offre a me singolo un riferimento per pensare a me stesso. Guarda me: io sono un maschio, bianco, eterosessuale, abile, quindi dovrei solo inchinarmi a guardare la discriminazione altrui. Il tema è vedere se invece questa produzione di discriminazione e soggezione agisce anche su di me. Quando mi si dice “non piangere sennò sei una femminuccia” da un lato mi si dice “le femmine sono ridicole perché piangono” ma dall’altro mi si dice anche “non ti è permesso piangere” e quindi lì sto perdendo un pezzetto. Una sorta di identità rattrappita del maschile, e lì possiamo scavare e andare a lavorare.
Novella Benedetti

Giornalista pubblicista; appassionata di lingue e linguistica; attualmente dottoranda in traduzione, genere, e studi culturali presso UVic-UCC. Lavora come consulente linguistica collaborando con varie realtà del pubblico e del privato (corsi classici, percorsi di coaching linguistico, valutazioni di livello) e nel tempo libero ha creato Yoga Hub Trento – una piattaforma che riunisce varie professionalità legate al benessere personale. È insegnante certificata di yoga.