Black or white?

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Ci sono differenze più evidenti di altre. Visibilmente connotate. Scarti cromatici che segnano i destini, che emarginano, che assecondano gli istinti primordiali di identificare un capro espiatorio che si faccia carico dei nostri mali e se li porti via. Nel migliore dei casi, il diverso viene allontanato dalla comunità. Nei casi peggiori viene condannato a umiliazioni psicologiche e fisiche, a volte persino ucciso. Si esorcizzano così paure e responsabilità, si eliminano le fatiche del confronto e dell’inclusione, si sciacquano le impurità che disturbano la pacata monocromatica rassicurante normalità del quotidiano.

Se dopo questo paragrafo vi immaginate un articolo su contenuti legati all’ennesima baruffa italiana o europea su immigrazione et similia, no, non sarà questo il caso. Ci spostiamo un po’ più in là questa volta. Geograficamente, in Tanzania. Tematicamente, perché parliamo di albini.

L’albinismo è un’anomalia congenita che consiste nella parziale o totale mancanza di pigmenti di melanina nella pelle, nell’iride, nei peli e nei capelli. Ti manca un enzima, la tirosinasi, quello capace di sintetizzare appunto la melanina. Incide su tutti i vertebrati, uomini compresi, e provoca difetti della vista come la fotofobia e l’astigmatismo. Ti rende pericolosamente suscettibile alle ustioni solari e ai tumori della pelle. Ti rende maggiormente esposto alle infezioni. Insomma, ne corri già abbastanza di rischi, inciampi già abbastanza su una serie di ostacoli che, ecco, non dovresti affrontarne altri, ancor meno se sei un bambino o una bambina. E invece l’albinismo è una condanna subdola e vigliacca, tutta chiusa lì dentro la sua etimologia. Sta tutto dentro quell’albus, quell’essere bianco come non dovresti.

Ci sono però anche sguardi che nei colori della realtà vedono arte, possibilità espressive, diritti. Marinka Masséus, pluripremiata fotografa olandese, ha un paio di begli occhi sul mondo. Con questi e con la macchina ha scattato una serie di foto raccolte sotto il titolo “Under the same sun”, sotto lo stesso sole. Perché certo, gli albini al sole mica ci possono stare tanto. Ma ci sono raggi di dignità che accarezzano la pelle e il cuore, e non bruciano. Il suo è un album che ci parla di inclusione, lotta alla discriminazione, bellezza che si ribella alle (mis)credenze popolari. Perché sì, ci sono Paesi in cui se sei albino sei il male. Lo rendi tangibile nella tua persona, e non puoi nasconderti anche quando rischi la vita: perché la tua vita per più d’uno vale la buona fortuna, soprattutto se la vita riesce a togliertela. Intorno agli albini fluttuano superstizioni appiccicose come tele di ragno, che scavano grotte profonde e buie nella cultura della Tanzania. Se nasci albino ti è lecito desiderare di morire presto, perché diversamente rischi di essere ucciso, se ti va bene escluso con tua madre dalla tua rete familiare e sociale di riferimento. A molti bambini albini vengono negati i diritti umani fondamentali, vivono nel disprezzo e nello scherno, finiscono per pensare di se stessi quello che pensano gli altri: sono il male, la loro esistenza è una maledizione, un male-dire che per loro diventa l’unico modo di dire, di raccontare se stessi. Vivono nel terrore costante di attacchi brutali. Sempre più spesso finiscono per crescere in campi chiusi, perché proteggerli fa rima con limitarne la libertà. Costretti a una vita di vergogna, vivono nascosti per una colpa costruita su millenari tabù sociali. Ma l’unica vergogna sono le ragioni che provano grottescamente a giustificare la colpa.

E in questa situazione gli ordinari problemi di salute non possono che essere amplificati: l’assenza di pigmentazione significa l’assenza di protezione naturale dai raggi solari, si manifesta in escoriazioni, bruciature, cancro della pelle. Nonostante numerose siano le organizzazioni internazionali che su vari livelli si impegnano a favore degli albini (dalla fornitura di creme solari alla sensibilizzazione sull’assurdità di questo stigma immotivato), la strada è ancora lunga. La gallery di Marinka Masseus si affianca al lavoro di molti, è un grido senza parole contro l’ingiustizia, nella convinzione che ci siano immagini che possano fare la differenza. Guardare per credere, e per commuoversi, qui, e per non lasciare che ridicole superstizioni si approprino del futuro già faticoso di questi figli bianchi dell’Africa nera.

Anna Molinari

Giornalista freelance e formatrice, laureata in Scienze filosofiche, collabora con diverse realtà sui temi della comunicazione ambientale. Gestisce il progetto indipendente www.ecoselvatica.it per la divulgazione filosofica in natura attraverso laboratori e approfondimenti. È istruttrice CSEN di Forest Bathing. Ha pubblicato i libri Ventodentro (2020) e Come perla in conchiglia (2024). Per la testata si occupa principalmente di tematiche legate a fauna selvatica, aree protette e tutela del territorio e delle comunità locali.

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