Nigrizia

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Il presidente della Commissione europea prende posizione su temi controversi: migrazioni, rapporti culturali ed economici tra sponda Sud e Nord del mediterraneo, guerra e pace, lotta al terrorismo.
Le elezioni europee di giugno si avvicinano. In Italia tra tricicli e presunti rimpasti di governo, tra polemiche e tecnicismi, si rischia di dimenticare alcune domande fondamentali per il futuro dell'Europa. Tra queste - soprattutto per spagnoli, francesi, italiani e greci - c'è anche il confronto con i paesi nordafricani: a volte si può avere la sensazione che ci siano risultati solo per l'integrazione economica (Nigrizia, 7/8 02, 16).

Da anni si continua a parlare - a intermittenza - di spazio euromediterraneo e di "processo di Barcellona" (espressione con cui si indicano i passi per raggiungere una sempre maggiore integrazione tra paesi Ue e 12 paesi del bacino del Mediterraneo, dalla prima conferenza euromediterranea di Barcellona nel 1995); le priorità risultano spesso essere altre.

Se da un lato l'Egitto è un paese fondamentale, e non solo per la sua posizione geografica, nei rapporti tra Europa, Africa subsahariana e Medio Oriente, dall'altro lato Marocco, Algeria e Tunisia (cfr. pag. 30) sembrano destinati a diventare sempre più un ponte tra Europa e Africa, non fosse altro che per il loro ruolo di paesi di transito di migranti africani. Anche il protagonismo diplomatico di Gheddafi (il leader libico ha appena "accontentato" Bush rinunciando a ipotetiche armi di distruzione di massa, Nigrizia, 2/04, 22) non può lasciare indifferente l'Europa.
Il presidente della Commissione europea Romano Prodi risponde alle domande di Nigrizia attraversando tutti questi temi.

La Banca euromediterranea e la Fondazione per il dialogo tra le culture sono due proposte concrete della Commissione per rafforzare e sviluppare il processo di Barcellona. Quando diventeranno operative? Come funzioneranno? Dove avranno sede?

La Banca e la Fondazione sono la rappresentazione concreta di un nuovo modo di intendere i rapporti tra Nord e Sud del Mediterraneo. Al di là delle forme giuridiche, infatti, esse costituiranno le prime "istituzioni comuni" tra europei e mediterranei, che potrebbero così lavorare congiuntamente e su base eguali. Non sarebbero istituzioni "concesse" dall'Europa al Mediterraneo, ma create insieme, per iniziative congiunte e progetti comuni.

Quando parlo di "tutto tranne le istituzioni" (la proposta dell'Europa per una maggior integrazione tra le due rive del Mediterraneo, ndr), riferendomi al nuovo concetto di "politica di vicinato", mi riferisco alle istituzioni esistenti ma non escludo di certo, tutt'altro, la creazione di nuove sedi di lavoro comuni.

Per quanto concerne la Banca, una decisione definitiva verrà presa nel 2005. Per il momento, l'Unione europea finanzia, oggi, attraverso il Fondo euromediterraneo d'investimento e di partenariato (Femip), i progetti d'investimento nella regione.

Io sono convinto che si debba fare di più, che si debba trasformare il Fondo in una vera e propria Banca, sussidiaria della Bei (Banca europea degli investimenti), la quale risponderebbe meglio alle necessità finanziarie della regione, in particolare per i progetti d'investimento del settore privato, e darebbe ai paesi del Mediterraneo l'opportunità di essere maggiormente coinvolti nella fase decisionale (questi ultimi potrebbero avere un posto nel consiglio di amministrazione).

Sul dialogo tra culture, poi, a Napoli, in dicembre, il Consiglio ha trovato un accordo sulla struttura della Fondazione euromediterranea, che avevamo proposto nel 2002 a Valencia. Sono fermamente convinto della necessità di una vera e propria fondazione, indipendente e con forti legami con la società civile, i cui fondi siano destinati a creare una struttura amministrativa efficace e leggera, capace di contribuire a migliorare la comprensione reciproca e ad evitare stereotipi e intolleranze.

La Fondazione dovrà essere uno strumento importante per fare uscire il tema del dialogo dai circoli ristretti delle élite intellettuali delle due sponde e diffonderlo su scala più grande, agendo nelle scuole, nelle università, attraverso le associazioni locali, il volontariato e i media. Il rapporto finale del gruppo dei saggi sul dialogo interculturale nello spazio, che ho istituito, ha già formulato una serie di raccomandazioni sulla Fondazione e il offrirà di sicuro un notevole contributo al suo lavoro.

La Commissione ha predisposto i mezzi necessari per avviare la Fondazione, ma ancora attendiamo un impegno almeno equivalente da parte dei governi. Al momento, vi sono quattro candidature per la sede: Cipro, Malta, Egitto (Alessandria) e Italia (Roma). La Fondazione dovrà, a mio parere, essere collocata in un luogo facilmente raggiungibile e che le garantisca la piena indipendenza e libertà d'azione, anche rispetto ad altri istituti o fondazioni esistenti, con i quali, però, dovrà lavorare in rete.

Lei ha dichiarato: "È chiaro che il Mediterraneo non può venire considerato unicamente una questione di sicurezza e una regione di frontiera. Un simile approccio è miope, perché non tiene conto dei processi umani sociali e storici in corso nello spazio euromediterraneo, ed è inefficace, perché non affronta le varie questioni pendenti alla radice"; e inoltre: "All'interno dell'Unione, dobbiamo riflettere su nuove soluzioni, più positive, per quanto riguarda il fenomeno dell'immigrazione; legare la questione dell'immigrazione e dell'interculturalità ai valori fondanti della cittadinanza europea, agire nel mondo del lavoro, nelle scuole, e attraverso un'azione più positiva dei media".

In questi ultimi anni, però, le leggi sull'immigrazione di paesi Ue come Spagna, Francia e Italia - in particolare sotto governi di centrodestra - hanno inasprito e reso più difficile la possibilità per i cittadini magrebini di venire a lavorare e a vivere sulla sponda nord del Mediterraneo. Come si può dunque uscire dalla sindrome di una "fortezza Europa" che dovrebbe essere difesa dalle presunte "invasioni" di marocchini, tunisini, algerini⅀? In che modo la Commissione e l'europarlamento possono incidere sulle singole legislazioni nazionali relative ai fenomeni migratori?

Da quando l'Unione ha definito a Tampere, nel 1999, le sue priorità in materia di immigrazione e asilo, ribadisco che la nostra strategia è duplice: combattere l'immigrazione illegale e cercare i modi più adatti per governare l'immigrazione legale.

L'immigrazione illegale va combattuta con decisione, non solo perché s'intreccia con fenomeni intollerabili per una società basata sul rispetto dei diritti dell'uomo, come nel caso del traffico di esseri umani e della riduzione in schiavitù, ma anche perché tolleranza su questo fronte si traduce in un crescente malessere delle nostre opinioni pubbliche che produce un violento rigetto del fenomeno immigrativo.

Fenomeno che al contrario è di impulso fondamentale allo sviluppo stesso del nostro benessere e della nostra produzione e che quindi va affrontato per la parte legale con politiche efficaci e coordinate di accoglienza, assistenza ed integrazione.

Detto questo, non ho difficoltà ad ammettere che gli stati membri, pur favorendo l'attività legislativa della Commissione in materia di lotta all'immigrazione illegale, non mostrano la stessa velocità nel giungere ad una gestione coordinata dell'immigrazione legale. La legislazione comunitaria in vigore in materia di migrazioni lascia agli stati membri il compito di fissare il numero di lavoratori di paesi terzi da accogliere.

E cosi resteranno le cose nel futuro prossimo. È materia delicata e gli stati membri debbono continuare a regolare tali flussi tenendo conto delle rispettive capacità di integrazione. La Commissione intanto si occupa di promuovere la cooperazione con i paesi a forte proiezione emigrativa. E la nostra idea, non è quella di limitare il dialogo alla questione dell'immigrazione illegale, bensì di affrontare anche il tema dei canali di immigrazione legale.

Come stanno funzionando gli accordi di associazione, in particolare con i paesi del Maghreb? Esiste il pericolo che con l'allargamento a est dell'Ue ci si "dimentichi" dei rapporti dell'Europa con la sponda sud del Mediterraneo?

Già due sono gli accordi, in vigore da diversi anni - in particolare con il Marocco e la Tunisia - che hanno permesso un progresso notevole. Inoltre, le stesse prospettive saranno aperte all'Algeria, non appena l'Accordo di associazione con questo paese - firmato, ma non ancora ratificato - entrerà in vigore.

Le iniziative di vicinato, oltre a relazioni bilaterali più forti, dovrebbero permettere forme di cooperazione intraregionale più flessibili, specialmente promuovendo la nascita di aree integrate di cooperazione subregionale. E la migliore prova di quanto affermo è stato il recente summit 5+5 (Francia, Italia, Malta, Portogallo e Spagna con Algeria, Libia, Mauritania, Marocco e Tunisia) tenuto a Tunisi con ampio successo e specificatamente dedicato a questo tema.

Come sono oggi i rapporti tra Ue e Libia?

Ad oggi non esistono formalmente relazioni tra Ue e Libia, in quanto tali. Attualmente, la Libia, nonostante sia membro a pieno titolo del 5+5, è solo un osservatore nel processo di Barcellona, anche se vorremmo che ne facesse pienamente parte accettandone tutti gli acquis. Vorremmo, infatti, integrare questo paese sempre di più nella politica europea di vicinato sulla base del rispetto dei valori condivisi.

Ci sono, infine, alcune aree di interesse, in cui siamo preparati a sviluppare una collaborazione equilibrata ("alla pari") con la Libia, e tra queste sicuramente la lotta l'immigrazione clandestina.

Gli attentati che si susseguono (in Marocco, in Turchia, in Medio Oriente) dimostrano che il terrorismo è sempre più globale, e che reti criminali si intrecciano tra le due sponde del Mediterraneo. Alcuni sostengono che in Gran Bretagna, Francia e anche in Italia certe moschee siano talvolta "basi" logistiche di reclutamento e di servizi. In che modo si può coordinare una politica europea contro il terrorismo? Quale ruolo ha in questo Eurojust? È possibile individuare ed eventualmente smantellare la rete internazionale che finanzia il terrorismo?

Il terrorismo è, oggi, il principale nemico da abbattere e non esiste al mondo alcuna giustificazione che possa motivarne l'esistenza. È possibile individuarne la rete e quindi smantellarla, ma non è facile. All'indomani dell'11 settembre 2001, l'Unione si è mossa con grande rapidità in varie direzioni: la cooperazione giudiziaria e di polizia, la lotta al finanziamento del terrorismo, il controllo delle frontiere (soprattutto quelle aeroportuali), la cooperazione con gli Stati Uniti.

Nell'arco del 2002, abbiamo reso operativa la struttura di Eurojust (che è un centro di coordinamento fra le magistrature europee, ma non una "magistratura comunitaria"); abbiamo varato il "mandato d'arresto europeo" (che consentirà, quando approvato, la consegna automatica all'interno dell'Europa, fra gli altri, dei terroristi); abbiamo varato una decisione che armonizza la definizione del terrorismo e le sanzioni applicabili, e un'altra, che impone agli stati membri di riconoscere ed eseguire ordini di confisca di beni emananti da un altro stato.

Un ruolo altrettanto strategico svolge Europol, che rappresenta il nucleo operativo di una futura polizia europea. Ad Europol sono state attribuite competenze specifiche nella lotta al terrorismo, nonché i mezzi finanziari e gli strumenti giuridici necessari per cooperare con i servizi di polizia all'interno e all'esterno dell'Unione.

Già nell'ottobre del 2001, inoltre, i ministri europei della Giustizia e degli Interni si sono riuniti insieme ai ministri delle Finanze per definire un piano d'azione mirante - oltre che a definire nuovi strumenti legislativi da adottare - a sensibilizzare e coinvolgere anche le istituzioni finanziarie, pubbliche e private.

Non c'è alternativa a una crescente collaborazione internazionale: oggi nessuno stato può illudersi di far fronte da solo alla minaccia che il terrorismo costituisce per i valori fondanti delle nostre società.

Sempre in termini di lotta al terrorismo, molti invocano una più forte autonomia militare dell'Europa, altrimenti destinata a rimanere succube delle scelte politiche e militari degli Usa. Questo implicherebbe non solo la disponibilità di un esercito europeo, ma anche una corsa al riarmo con progetti comuni (ad esempio il caccia Eurofighter e le fregate della classe Horizon).

Nello stesso tempo milioni di cittadini europei e centinaia di organismi della società civile hanno sfilato un anno fa in tutta Europa, per manifestare non solo il loro no alla guerra in Iraq ma anche il loro desiderio di pace che passa da una riduzione delle spese militari e dallo sviluppo di tecniche nonviolente di gestione dei conflitti. Alcuni propongono di inserire nella Carta europea l'articolo "L'Europa ripudia la guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali". In che modo dunque conciliare sicurezza, eserciti professionali, armi e tecnologie all'avanguardia, con desiderio di pace e riduzione delle spese militari?

È esattamente la materia che si è discussa nell'ambito del dibattito sulla Costituzione e che si sta, pezzo per pezzo, costruendo. Sarà anche brutale il "si vis pacem para bellum", ma non c'è alternativa a una credibile capacità militare di dissuasione, se si vuole preservare, garantire o imporre la pace.

Nessuno può accusare l'Europa di paranoie belliciste, ma se non si è in grado di dispiegare truppe di interposizione, non si fa politica estera o politica di mediazione diplomatica nelle aree più calde del mondo. Questa è la spietata lezione che la guerra in Iraq ha dato a tutti, compresi coloro che hanno sempre creduto e continuano legittimamente a credere nel valore insostituibile del multilateralismo e del rispetto della legalità internazionale.[MDT]

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