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Le promesse di Istanbul. La realtà delle donne
Educazione allo sviluppo
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Foto di Noah Buscher su Unsplash
Oggi chi dice “prevenzione e lotta contro la violenza nei confronti delle donne e della violenza domestica” dice Convenzione di Istanbul. Adottata nell’omonima città turca il 7 aprile del 2011 sotto gli auspici del Consiglio d’Europa, che ne ha promosso i lavori, sono molti i Paesi che hanno aderito: 37 dei 46 Stati membri dell’organizzazione internazionale l’hanno firmata e ratificata. Tuttavia ad oggi ancora 7 firmatari non l’hanno ratificata, oltre all’Armenia, 5 Stati membri dell’Unione Europea: Bulgaria, Repubblica Ceca, Ungheria, Lettonia e Lituania. L’Azerbaijan è l’unico Stato del Consiglio d’Europa a non averla neanche firmata. Inoltre la Turchia rappresenta probabilmente un caso unico nella storia del diritto internazionale contemporaneo: ha aderito nel 2012 e poi è uscita nel 2021 dalla Convenzione; paradossalmente non è più parte di un Trattato che porta nella denominazione il nome di una città turca! Anche l’Unione Europea nel 2017 ha firmato la Convenzione ma tarda a ratificarla: sicuramente l’assenza di una compatta adesione dei suoi Stati membri ne è la ragione principale; tuttavia, non si tratta di un elemento ostativo alla prosecuzione del processo di ratifica, come stabilito nell’ottobre 2021 dalla Corte di Giustizia dell’UE. La coincidenza di due fattori gioca a favore di una svolta: innanzitutto lo scorso febbraio è giunto l’appello del Parlamento Europeo per la ratifica della Convenzione, firmata ben 6 anni fa: il testo è stato adottato a larga maggioranza (469 voti favorevoli, 104 contrari e 55 astenuti) e invita a rompere gli indugi e a ratificare la Convenzione intesa quale “strumento chiave nell’eradicazione della violenza di genere”. In secondo luogo la presidenza (di turno) della Svezia in questo primo semestre 2023 che ha fatto dell’accesso dell’UE alla Convenzione di Istanbul un tassello del suo programma. “Nell'UE una donna su tre ha subito violenze fisiche o sessuali. Finché perdurerà questa odiosa situazione, non saremo in grado di rendere la parità di genere una realtà. L'adesione dell'UE alla convenzione di Istanbul è un forte segnale del nostro impegno a porre fine a questa violenza e svolgerà un ruolo importante nella prevenzione e nel perseguimento di tali atti” ha dichiarato Paulina Brandberg, ministra della Parità di genere e viceministra dell’Occupazione svedese nella sessione del Consiglio europeo dello scorso febbraio.
Mentre, dunque, la procedura per conseguire la ratifica dell’UE, dei suoi membri e di terzi partner extra-UE va avanti, oggi la Convenzione di Istanbul appare sotto attacco. Già nel luglio 2021, Amnesty International aveva definito “vergognoso” il ritiro della Turchia dalla Convenzione dinanzi a numeri che contano l’assassinio in ambito domestico di almeno 300 donne nel Paese, la punta dell’iceberg di una condizione in Turchia tutt’altro che paritaria tra uomo e donna. Inoltre, secondo l’organizzazione umanitaria, la denuncia turca della Convenzione rischia di dare un messaggio di patente impunità a chi compie violenza contro le donne. Le ragioni per il ritiro addotte dal presidente turco Erdoğan sono state pubblicamente condivise da altri governi europei (anche parte della Convenzione), conservatori in materia di ruolo societario della donna. In particolare la Polonia di Mateusz Morawiecki e l’Ungheria di Viktor Orbán hanno fatto proprie le pretestuose motivazioni addotte dalle autorità turche per demonizzare l’uguaglianza di genere, i diritti delle donne e delle persone LGBTIQ: i valori della famiglia contro il diritto all’aborto e la propaganda gender contro la normalizzazione dell’omosessualità e, in generale, di comportamenti non standardizzati e riconducibili alla famiglia tradizionale.
In Italia le disposizioni della Convenzione di Istanbul sono entrate in vigore il 19 giugno 2013. Sono 10 anni, dunque, che l’Italia ne è parte. Sono, cioè, 10 anni che il Paese si è impegnato sul fronte della prevenzione, protezione e tutela delle vittime di violenza sulle donne, una violenza di tipo fisica, sessuale, psicologica ed economica. Cosa ha fatto nel concreto? Di certo l’Italia è intervenuta in maniera pro-attiva a livello legislativo: sia all’interno del codice di procedura penale con la cosiddetta legge sul femminicidio e lo stalking nel 2013 e con il “Codice rosso” nel 2019 che introduce reati per la costrizione al matrimonio e per la diffusione in rete di immagini/video sessualmente espliciti senza il consenso delle persone (“revenge porn”).
Non basta però la produzione normativa. Pandemia e convivenza forzata dettate dalle disposizioni in materia di contenimento del Covid-19 hanno aggravato i fenomeni di violenza domestica. I soli numeri dei femminicidi nel 2022 contano oltre 90 donne uccise in ambito familiare e dall’inizio di quest’anno si superano i 20 femminicidi. Occorre quindi fare di più.
Occorre investire nella sensibilizzazione e nell’istruzione a scuola.
Occorre formare personale adatto a raccogliere le istanze delle vittime e delle potenziali vittime di violenza.
Occorre investire fondi per offrire i corretti servizi.
Riconoscere i diritti, prevenire la violenza e l’abuso domestico sono e dovrebbero essere i punti fondamentali per qualsiasi Paese civile che è alla ricerca di un nuovo umanesimo inclusivo e sostenibile. Per farlo, occorre cambiare il paradigma e inserire questi interventi in un processo più ampio di riconoscimento dei pari diritti delle donne, di empowerment femminile per dare piena presenza alla donna nel mondo del lavoro, una indipendenza economica dunque un futuro paritario della figura femminile anche in ambito familiare.
Miriam Rossi

Miriam Rossi (Viterbo, 1981). Dottoressa di ricerca in Storia delle Relazioni e delle Organizzazioni Internazionali, è esperta di diritti umani, ONU e politica internazionale. Dopo 10 anni nel mondo della ricerca e altrettanti nel settore della cooperazione internazionale (e aver imparato a fare formazione, progettazione e comunicazione), attualmente opera all'interno dell'Università degli studi di Trento per il più ampio trasferimento della conoscenza e del sapere scientifico.