La rivoluzione verde di Kenyatta

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Il Galana-Kulalu National Food Security Project è il Progetto di Kenyatta per il Kenya del futuro. Data d’inizio 2014. Data di fine 2017. Un sogno fatto di settecento mila ettari e 250 miliardi di scellini (oltre 2 miliardi di euro). Immense superficie agricole irrigate, meccanizzate, industrializzate per sottrarre il Paese dall’alea climatica, dalla vulnerabilità alimentare, per “metterlo in sicurezza”. I sogni, gettandosi nella realtà, possono però riservare qualche imprevisto.

Qualcuno avrà pensato che la Rivoluzione Verde fosse oramai una pagina del libro di storia (o di geografia)? Illusione. Ero tra quelle persone che pensavano – circa quindici anni fa – che gli aggiustamenti strutturali avrebbero in qualche modo costretto gli attori forti a retrocedere, a lasciare più spazio – oltre ahinoi al settore privato delle imprese (multinazionali) – anche agli attori più deboli, cioè cooperative di produttori, groupement di contadini, comunità ecc. Oggi invece scopriamo che le procedure forti della rivoluzione verde sono più che mai attuali. Si sta tornando (forse non sono mai state abbandonate) alle logiche della grande diga (si veda il caso dell’Etiopia per fare un esempio), delle immense superficie agricole, delle tecnologie irrigue d’avanguardia o dell’azzardo.

Andiamo in Kenya. Dire Galana-Kulala, qui ed ora, è come dire Gezira in Sudan negli anni cinquanta e sessanta del Novecento. Oltre 700.000 ettari irrigabili nel primo caso (National Irrigation Board), oltre 800.000 ettari nel secondo.

Tra le imprese che Uhuru Kenyatta, il cui mandato è iniziato nel 2013, vuole consegnare alla storia c’è il potenziamento della sicurezza alimentare del Kenya attraverso l’irrigazione (si veda The irrigation bill 2015, in .pdf) e un grande progetto irriguo tra il fiume Tana e il fiume Galana (detto anche Sabaki), così denominato nella parte verso la foce, adagiata sull’Oceano Indiano, a nord di Malindi; a monte il fiume si chiama Athi. Il fiume “taglia” in due il parco nazionale dello Tsavo orientale.

L’Athi-Galana/Sabaki è il secondo fiume del Paese per lunghezza, ma la sua portata è scarsa. Si ingrossa durante la stagione delle piogge e arriva ad irrigare poco più di 180.000 ettari, non 700.000 come proclamato dal Presidente nel 2014 al lancio del suo progetto-bandiera, il Galana-Kulalu National Food Security Project – criticato fin sul nascere. Il ranch Galana non è un'invenzione recente; nato nel 1968, è acquistato dal governo keniano nel 1989 attraverso l’Agricultural Development Corporation (ADC) con lo scopo di allevare bestiame, promuovere l’ecoturismo; sviluppare la produzione dell’agricoltura e del biogas.

Recente è l’idea di trasformarlo in una terra da irrigare e recente è, a questo proposito, l’ingresso dell’israeliana Green Arava, l’azienda che ha vinto l’appalto per lo sviluppo della fattoria sperimentale con l’obiettivo di irrigare 4.000 ha di terra. Il contratto è di 14,5 miliardi di scellini. Degli 800 ha di terreno bonificati e pronti ad aprile 2015, a giugno dello stesso anno erano in produzione solo 200 ha irrigati con sistemi di pivot (metodo sprinkler).

Le speranze del governo – “dichiarate ai media” – sono di riuscire ad estendere i lavori di preparazione del terreno a 2.000 ha per la fine dell’anno in corso e successivamente completare i restanti. Mentre l’opposizione, l’Orange Democratic Movement Party (ODM), critica fortemente i lavori: dei 13,8 miliardi del budget nazionale 2015/16 allocati al National Irrigation Board, 3,5 miliardi sono destinati al Galana-Kulalu (troppi! considerato che non è l’unico progetto irriguo) e soprattutto “non c’è alcun precedente al mondo di mais coltivato alla scala commerciale attraverso l’irrigazione”.

Per quanto riguarda invece il fabbisogno idrico, perché non basta appianare i terreni, è nella Exim Bank of China che il paese ha riposto la fiducia per un finanziamento che copra la costruzione di una diga da due miliardi di metri cubi, anche se servirebbero tre mega dighe lungo il Galana per riuscire ad irrigare 700.000 ettari. Chiaramente, se mai si riuscirà a realizzare tutto ciò, sarebbe opportuno interrogarsi sulla sostenibilità dell’irrigazione per pompaggio, altamente dispendiosa in termini energetici (le pompe funzionano a diesel) confrontandola con l’alternativa gravitazionale più accessibile. La risposta dei “portatori” del progetto c’è: l’irrigazione per pompaggio è solo temporanea perché quando il progetto sarà a pieno regime verranno utilizzati motori elettrici per far funzionare le pompe.

Torniamo al mais della fattoria sperimentale che dovrebbe essere maturo il mese prossimo: l’idea del progetto è di trasformarlo e di confezionarlo in loco. Dovrebbe arrivare dal Sud Africa la macchina per la macinatura, dotata anche di un essiccatoio per evitare che l’aflatossina, una sostanza chimica molto pericolosa e comune nelle aree umide, contamini la farina.

Il quadro sintetico del progetto può dirsi al completo se non che manca (forse) completamente il territorio di riferimento. Lungo il Galana vivono agricoltori, pastori e pescatori appartenenti ad un complesso intrico di gruppi etnici nell’entroterra e al gruppo Mijikenda, di origine bantu verso la costa. Queste popolazioni traggono dalle coltivazioni di cerali, dal bestiame e dalla pesca il loro sostentamento. Il progetto Galana-Kulalu per la sicurezza alimentare è uno dei grandi progetti idro-agricoli della storia del Kenya.

Secono il governatore di Kilifi, una delle due contee che ospitano il progetto (l’altra è la contea Tana River) “Nessun progetto d’irrigazione può sopravvivere se le comunità locali non sono coinvolte. Si tratta di un affare freddo; solo poche persone vedranno i benefici”. Infatti, già cominciano a farsi pesanti le tensioni tra pastori Orma ed agricoltori Pokomo per l’accaparramento delle risorse: acqua e suolo sono indispensabili per le attività quotidiane di queste comunità. “Il 70% dei posti di lavoro creati dal progetto dovrebbe andare ai locali: questo dovrebbe essere il vero significato del progetto statale. I locali dovrebbero poter coltivare liberamente e vendere la produzione; inoltre, dovrebbero essere mantenuti dei corridoi idonei al pascolo per consentire agli animali l’accesso al fiume Galana”. I canali d’irrigazione pesantemente sistemati a ridosso del fiume diventano dei muri inaccessibili costringendo le mandrie ad allungare i percorsi del pascolo, talvolta ad intercettare le aree coltivate, talvolta non riuscendo neppure a raggiungere la destinazione. I punti d’acqua diventano dei miraggi.

Certamente queste questioni contano poco all’interno di un’economia che vuole diventare un leone d’Africa a partire dall’industrializzazione dell’agricoltura.

“By building industries here at home we can create the kind of economy that will generate 5 million new jobs over the next 5 years. We must grow Kenyan industry, both small and large, attracting foreign while mobilizing domestic resources, adding value to our products and mechanizing agriculture and improving access to markets for agricultural produce (tratto dal manifesto del giubileo, l’alleanza partitica tra National Alliance, United Republican Party, National Rainbow Coalition, Republican Congress Party of Kenya; il discorso è stato tenuto da Uhuru Kenyatta il 3 febbraio 2013).

Per il 2017, data di presunto completamento del progetto, dovrebbero essere disponibili oltre 200.000 ettari per la produzione di mais, oltre 80.000 ettari di canna da zucchero, 60.000 ettari per l’allevamento di bovini e di selvaggina, 20.000 ettari per l’allevamento di animali da latte, 20.000 ettari di ortaggi, 20.000 ettari dedicati alla coltivazione di alberi da frutto come manghi e guaiave. Totale: 400.000 ettari. Di quelli sognati, mancherebbe qualche centinaio di migliaia di ettari. Non ci sono dubbi, quella di Kenyatta junior non è certo la rivoluzione “green” che aveva sognato il premio nobel per la pace 2004 Wangari Maathai, orgoglio afro.

Sara Bin

(1976) vive in provincia di Treviso e lavora a Padova. É dottore di ricerca in geografia umana; ricercatrice e formatrice presso Fondazione Fontana onlus dove si occupa di progetti di educazione alla cittadinanza globale e di cooperazione internazionale; è docente a contratto di geografia politica ed economica; ha insegnato geografia culturale, geografia sociale e didattica della geografia. Collabora con l’Università degli Studi di Padova nell'ambito di progetti di educazione al paesaggio e di formazione degli insegnanti. Ha coordinato lo sviluppo e l'implementazione dell'Atlante on-line in collaborazione con il Ministero dell'Istruzione, del'Università e della Ricerca. Dal 2014 fa parte del gruppo di redattori e redattrici di Unimondo. Ha svolto attività didattica e formativa in varie sedi universitarie, scolastiche ed educative ed attività di consulenza nell’ambito della cooperazione allo sviluppo. Tra i suoi principali ambiti di ricerca e di interesse vi sono le migrazioni, la cittadinanza globale, i progetti di sviluppo nell’Africa sub-sahariana, lo sviluppo locale e la sovranità alimentare. Ha svolto numerose missioni di ricerca e studio in Africa, in particolare in Burkina Faso, Senegal, Mali, Niger e Kenya. E' membro dell'Associazione Italiana Insegnanti di Geografia e presidente della sezione veneta

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