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L’appello per coniugare dignità e fundraising
Educazione allo sviluppo
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Disagio e senso di colpa. Le armi vincenti del fundraising sono ben note. Toccare le coscienze delle persone, o anche solo scalfire l’asticella della compassione, genera una donazione economica. È di indubbia efficacia questo copione, ripetuto degli spot forgiati da numerose organizzazioni, governative e non, che compaiono come mosche su tutti i canali televisivi specie con l’approssimarsi del “più solidale” periodo natalizio. Lo è ancora di più quando sono gli sguardi di bambini scheletrici e con le pance gonfie ad attrarre l’attenzione dello spettatore e la voce fuori campo aggiunge alle già penose immagini dati drammatici, ad esempio i numeri dei bambini morti per denutrizione nell’area. Fortunatamente esiste un possibile lieto fine suggerito dallo stesso narratore dello spot: il sostegno a un progetto o a un intervento può incidere sulla situazione appena descritta. Il donatore è felice per aver contribuito alla soluzione di un dramma e le organizzazioni, intermediari dell’azione, lo sono altrettanto perché i loro progetti porteranno gli aiuti concreti promessi.
Qualcosa però non torna in questo canovaccio e sono proprio gli operatori del terzo settore ad animare in nome dell’etica un dibattito severo, quanto al momento infruttuoso, sulla comunicazione utilizzata dal no profit. È in tale contesto che si inserisce l’appello lanciato in questi giorni da Nino Santomartino, responsabile Comunicazione sociale e Rsi nell’esecutivo dell’AOI (Associazione Organizzazioni Italiane di cooperazione e solidarietà internazionale), per costruire un tavolo di lavoro volto a individuare un codice di condotta comune in materia di etica della comunicazione. “Raccolta fondi e dignità, binomio possibile?”, si domanda l’attivista in una lettera inviata ai principali organi di stampa. La risposta è senz’altro positiva, attraverso la “promozione di un gruppo di lavoro snello costituito da soggetti competenti e dove siano rappresentati i principali stakeholder, con il compito di definire alcune mirate integrazioni al Codice di autodisciplina della comunicazione commerciale. Un gruppo in cui ci siano organizzazioni no profit impegnate nel fundraising, realtà della comunicazione e dell’informazione, professionisti, consulenti e ricercatori: tutti impegnati nell’azione, nella comunicazione e nella ricerca sociale.”
Una sollecitazione che affonda la sua ricetta nelle proposte sinora sollevate, e non accolte, di raggiungere un accordo su una forma di autodisciplina in materia. Piuttosto tali pareri hanno finito per alimentare un “’botta e risposta’ sull’utilizzo delle immagini nella raccolta fondi”, ricorda Santomartino, “tra chi è fautore del ‘fine giustifica i mezzi’ e chi, invece, bolla questo modo di fare raccolta fondi come ‘pornografia del dolore’”. Un dibattito vivace che la scorsa primavera ha preso le mosse da una delle ultime campagne di raccolta fondi di Save The Children che mandava in onda le immagini strazianti di un bambino fortemente denutrito, ripreso in un lungo e ininterrotto (è il caso di dire infinito) piano sequenza. Lo spot di John, questo il nome del bambino, è stato attaccato dalle pagine della rivista “Africa, missione e cultura” in una riflessione sulla liceità dell’uso di tali immagini firmata dai direttori Pier Maria Mazzola e Marco Trovato. La critica ruotava attorno all’interrogativo “È lecito (e fin dove? E in quali contesti di fruizione?) ‘sbattere il mostro in prima pagina’?”, specie in questo caso in cui il mostro si identifica con la vittima. Il richiamo è dunque alla dignità della persona e, a livello, giuridico, alla Carta di Treviso, il codice deontologico che vige in Italia in materia di informazione giornalistica a tutela dei bambini, in particolare nella diffusione di immagini e vicende ad essi connesse. I giornalisti domandano allora polemicamente “Vale solo per gli italiani?… Per i bambini bianchi?”. È Eleonora Camilli del Redattore Sociale a raccogliere tale spunto. Recuperando la polemica sull’uso di “immagini del dolore per strappare 9 euro al mese”, offre anche la possibilità di replica alla ong criticata che interpreta invece proprio l’uso di quelle immagini insopportabili come il modo più utile per mostrare un’ingiustizia che non può essere più accettata.
È dalla constatazione dell’urgenza di affrontare e risolvere la questione etica che sta dietro la comunicazione delle organizzazioni che Nino Santomartino cerca di orientare la riflessione. “Tempi brevi, un programma rigoroso, obiettivi e agenda definiti: il solo dibattito, la polemica, sono di ostacolo all’accountability delle organizzazioni e creano un danno alla reputazione di tutto il mondo solidale.” Credibilità diventa allora la parola d’ordine dinanzi ai partner e ai donatori. Alcuni tentativi di corresponsabilizzare attori sociali, mondo della comunicazione e istituzioni sono stati già fatti. Tra questi vi è senza dubbio la Carta di Trento per una migliore cooperazione internazionale promossa da Fondazione Fontana Onlus, uno strumento di riflessione sugli Obiettivi ONU di sviluppo del millennio tra gli operatori del settore che parla di “comunicazione corretta”, affermando tra l’altro che “appare indispensabile anche monitorare, e laddove possibile modificare, il linguaggio e le immagini utilizzate dai media per comunicare”. Nella stessa direzione guardano anche le “Linee guida per la Raccolta dei fondi”, strutturate nel 2010 dall’Agenzia per il Terzo Settore, che chiedono di “considerare la sensibilità pubblica ed evitare l’uso di immagini o testi lesivi della dignità della persona, che potrebbero offendere anche solo una parte dei destinatari”. Ancora più concretamente, già tra il 2010 e il 2011, l’Assif (Associazione Italiana Fundraiser), propose di meglio integrare il già esistente Codice di autodisciplina della comunicazione commerciale con specifiche indicazioni per le raccolte fondi del no profit. Sarebbe già un buon punto di partenza, suggerisce Santomartino, eliminare il termine “commerciale” dall’attuale titolo del Codice, facendolo così diventare il punto di riferimento normativo per la comunicazione sia profit che non profit.
In attesa delle reazioni e delle adesioni all’appello lanciato per la costruzione del tanto auspicato tavolo di lavoro, una cosa è certa. L’assunzione di responsabilità che questo lavoro presuppone riguarda l’intera società civile. In gioco c’è la credibilità del cosiddetto terzo settore e, ben più importante, la tutela della dignità umana degli stessi destinatari dei progetti di cooperazione e solidarietà internazionale. Altrimenti di che cooperazione, di che partenariato, di che giustizia sociale stiamo parlando?
Miriam Rossi

Miriam Rossi (Viterbo, 1981). Dottoressa di ricerca in Storia delle Relazioni e delle Organizzazioni Internazionali, è esperta di diritti umani, ONU e politica internazionale. Dopo 10 anni nel mondo della ricerca e altrettanti nel settore della cooperazione internazionale (e aver imparato a fare formazione, progettazione e comunicazione), attualmente opera all'interno dell'Università degli studi di Trento per il più ampio trasferimento della conoscenza e del sapere scientifico.