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Scontri e arresti di massa: la società civile curda in Turchia chiama l’Europa
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Canti e balli di fronte al Colosseo, fuochi accesi, cene e spettacoli: anche a Roma la comunità curda ha festeggiato il Newroz, il capodanno, la festa più importante e celebrata da questo popolo, che coincide con l’inizio della primavera. Una festa che è anche l’occasione per rivendicare con orgoglio la propria esistenza, che nella loro terra, la Turchia, viene ancora negata. I curdi di Roma hanno sventolato le loro bandiere, appeso striscioni inneggianti al leader politico Abdullah Ochalan, capo del partito dei lavoratori curdi Pkk, tutt’ora in isolamento in carcere e senza la possibilità di vedere i propri avvocati. “Biji Serok Apo” (viva il Presidente Apo, come chiamano affettuosamente Ochalan) è stato lo slogan che ha accompagnato queste giornate, segnate sempre e comunque dalla nostalgia e dal pensiero dei loro connazionali che ogni giorno, in una Turchia che si vuole sempre più vicina all’Europa, vedono i loro diritti negati e calpestati.
Proprio in Turchia quest’anno il primo ministro Erdogan ha vietato tutte le celebrazioni del Newroz in programma prima del 21 marzo, nonostante le manifestazioni principali siano sempre state celebrate la domenica prima del 21. Motivo ufficiale: “Il BDP, il partito filo-curdo che ha diversi deputati nel Parlamento di Ankara, vuole strumentalizzare queste celebrazioni per creare uno scontro con il governo”. I curdi si sono comunque riuniti in massa in oltre 130 piazze del Paese. Come previsto sono stati immediatamente attaccati dalla polizia. Il bilancio è pesante: secondo l’agenzia stampa ANF (Fırat News Agency) tra il 18 e il 21 marzo sono stati arrestati circa 679 curdi, portando il numero delle persone detenute nel solo mese di marzo a 1095. Hacı Zengin, membro del BDP, è stato ucciso da un candelotto lacrimogeno il 18 marzo a Istanbul, mentre il vice presidente del BDP Mülkiye Birtane è stato colpito dalla polizia e portato in ospedale.
Eppure, dopo i bui anni Novanta, una sorta di pace tra turchi e curdi stava cominciando a prendere forma. Questo fino al 2009, quando, a partire dalle elezioni amministrative, l’offensiva del governo si è inasprita improvvisamente, sia in campo militare nel sud-est del Paese, sia contro la società civile. Le autorità hanno dato il via a un’enorme catena di arresti e incarcerazioni preventive: parlamentari, sindaci, consiglieri comunali, scrittori, giornalisti, attivisti dei diritti umani, rappresentanti di organizzazioni non governative, avvocati, sindacalisti e studenti. Oggi oltre 6.000 persone si trovano in carcere con l’accusa di essere membri o di fare propaganda per organizzazioni terroristiche filo-curde.
“Il problema – racconta Hevi Dilara, intellettuale kurda e direttore dell’associazione Europa Levante – è che in Europa ci si limita a stringere solo rapporti di partnership con la Turchia, prendendo poco in considerazione la questione dei diritti. Come se non si volesse disturbare questa nuova potenza che sta diventando sempre più strategica negli equilibri europei. Dopo le ultime elezioni, anziché sedersi a un tavolo e negoziare, l’Akp, il partito del governo, ha dato il via ad una vasta operazione di polizia volta a colpire attraverso centinaia di arresti la società civile curda in tutte le sue declinazioni. Vogliamo continuare a ignorarlo?”.
Per capire fino a che punto sia arrivata la spinta repressiva in Turchia basta vedere la situazione dei media, con 104 giornalisti imprigionati e accusati di attività e propaganda filo-terroristica. Di questi, i due terzi sono curdi, tenuti per mesi in cella senza accuse precise, in attesa dei processi che si risolvono spesso con una condanna. Renate Schroeder, segretario generale della Federazione europea dei giornalisti, parla di una “situazione drammatica” e racconta anche di pressioni da parte del governo turco verso tutte le testate e i sindacati di opposizione.
Dello stesso avviso Ferda Cetin, giornalista curdo rifugiato in Francia, che durante un incontro organizzato a Roma dalla Federazione Nazionale della Stampa proprio per discutere il problema dei media turchi racconta: “Ho lavorato per 10 anni nei giornali in Turchia. Da allora sono stati uccisi 34 giornalisti, anche se il governo turco non li ha mai considerati tali. Basta solo che trattino la questione curda e subito per Erdogan diventano tutti terroristi e vengono arrestati”. Cetin riporta un aneddoto che rende bene l’idea della situazione: “Durante una conferenza stampa con il ministro dell’agricoltura Mehdi Eker – racconta – alcuni giornalisti gli hanno fatto delle domande circa l’aumento degli arresti dei giornalisti curdi dell’ultimo periodo, e lui ha risposto: ma cosa vogliono? Prima venivano uccisi, oggi invece, anche se in carcere, almeno sono vivi”.
Passi indietro anche sulla questione della lingua, ed ecco che di recente alle tv e alle radio è stato vietato di pronunciare lettere presenti nell’alfabeto curdo, come la x e q. “La TV – interviene ancora Hevi Dilara – ha ricevuto una lista di parole vietate perchè secondo i censori del governo associabili con la guerriglia curda. Si è arrivati addirittura a vietare l’uso della parola montagna. Le lobbies economiche turche, poi, hanno deciso di non rilasciare dichiarazioni alla Reuters fino a quando non chiamerà i membri del Pkk terroristi e non ribelli”. La lista, con casi che vanno dal tragico al grottesco, è lunga.
Se l’Europa ancora tace, la mobilitazione arriva come sempre dalla società civile: le comunità curde e i simpatizzanti hanno cominciato, anche in Italia, uno sciopero della fame in solidarietà con quello dei parlamentari e degli attivisti che si trovano in carcere in Turchia, mentre i giornalisti dei vari paesi Ue si stanno mobilitando per portare la questione curda all’attenzione dell’opinione pubblica, attraverso l’adozione virtuale dei giornalisti incarcerati. La FNSI ne ha già adottati due, Bedri Adanir e Baha Okar, il primo dei quali, spiega il segretario Franco Siddi, “è ancora sotto processo nonostante scrivesse per un giornale scientifico, quindi fuori da ogni contesto politico”. E annuncia: “Il 30 aprile andremo a Istanbul a trovare i colleghi in aula di tribunale, per poter testimoniare anche fisicamente la nostra vicinanza”.