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Omero è nato a Mogadiscio
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Michele Brusini, nato a Udine nel 1986, da quattro anni lavora presso la Caritas della sua città, dove si è occupato di progetti di “educazione alla mondialità” nelle scuole e dell’accoglienza dei profughi nordafricani arrivati in Italia nel 2011. Oltre a “Omero è nato a Mogadiscio”, sul tema dell’accoglienza dei migranti, per la casa editrice Nuova Dimensione ha pubblicato un libro dal titolo “Uallai!”, scritto insieme al collega Sandro Lano. Lo abbiamo intervistato.
“Omero è nato a Mogadiscio” è dedicato al fenomeno dei richiedenti asilo giunti in Italia in seguito alla guerra di Libia e alla Primavera araba: un titolo forte, denso di significati e letture possibili, di certo una intensissima storia umana e professionale…Ce ne parla? che sensazione la fa, oggi, rileggere di questa esperienza?
Parto dal titolo: “Omero è nato a Mogadiscio” voleva essere una provocazione. È un titolo che ricorda come i migranti – per quanto siano degli “invisibili”, salvo fatti mediatici eclatanti – non solo rappresentano un pezzo fondamentale della storia contemporanea, ma sono anche i veri eredi dell’epica classica. Omero, se vivesse oggi, scriverebbe di loro: scriverebbe delle loro vite plasmate da eventi epocali come guerre, emergenze umanitarie, disuguaglianze economiche… scriverebbe dei loro incessanti tentativi di allineare storia personale e destino che la Storia ha assegnato. Scriverebbe delle loro odissee e dei travagliati tentativi di ritornare a casa, o di trovarne una nuova. Personalmente, vedo i migranti – di qualsiasi nazionalità – come la prima linea del nostro presente: quella maggiormente in pericolo e quella con un maggior potere e urgenza di testimonianza. E in quanto tali non meritano retoriche riduttive come il pietismo, l’allarmismo o – peggio ancora – il silenzio totale.
Credo in questo modo di aver già detto molto sulla mia esperienza di lavoro con i profughi: è stato un privilegio, certo, ma un privilegio faticoso da elaborare. Si condivide la giornata con persone scaraventate dalla guerra libica al pianeta Marte (l’Italia ai loro occhi). Il libro racconta tutte le frustrazioni , i fraintendimenti, le reciproche inadeguatezze che segnano quello che è un rapporto dispari in partenza: noi accogliamo, loro raccolgono l’accoglienza. In questo contesto è molto facile impantanarsi nella dialettica servo-padrone, anche quando si hanno le migliori intenzioni. Il nostro lavoro quotidiano consisteva in fondo nel tentare di tirarci fuori (noi e loro) da questo pantano, cercando di costruire nuove opportunità di dialogo.
La Caritas di Udine è stata in prima linea durante “l’emergenza nord Africa” in seguito alla guerra di Libia e alla Primavera araba del 2011 e lo è anche oggi con i “nuovi profughi”. Cosa è stato recepito secondo lei, dagli operatori, dalla comunità di Udine e dalle Istituzioni? È stato fatto tesoro delle esperienze precedenti oppure si continua a lavorare sull’emergenza?
Credo che gli operatori abbiano imparato molto sul campo, e siano ora molto più capaci di gestire l’accoglienza di chi arriva. La comunità di Udine – come probabilmente tutte le altre – fa invece ancora fatica ad accorgersi che queste persone ci sono, o ad andare oltre ai facili allarmi per i nuovi arrivi di profughi in città. Le Istituzioni mi pare abbiano più di un motivo per continuare a preferire lo stile emergenziale a quello strutturale. L’emergenza è più elastica, più malleabile e agile rispetto alla struttura rigida e “pesante” di un sistema. E mi sembra questo non valga solo per i profughi.
Come è arrivato a scrivere questi “stralci di vite che si incrociano”? Quanto è difficile rimanere professionali di fronte ad esperienze umane così forti e complicate?
Il libro l’ho scritto su richiesta della Caritas per cui lavoro, che non voleva limitarsi a fare uscire il solito report che segue alla chiusura dei progetti.
Rispetto alla possibilità di rimanere distaccati nel lavoro con le persone, posso dire che di certo è complicato, ma è un atteggiamento mentale che si consolida con il tempo. Insomma: si impara. Per quanto io continui a ritenere che a volte “rimanere professionali” in questo contesto non sia la cosa più intelligente da fare. Credo infatti che questo lavoro insegni che si debbano mettere in campo anche molte attitudini o sensibilità “extraprofessionali” per poter essere davvero definiti competenti.
In una parte della sua opera tratta “La globalizzazione dell’indifferenza” che, purtroppo, ha molti seguaci anche nel nostro Paese…
Mi sembra che il libro parli proprio di questo. La globalizzazione dell’indifferenza è il motivo per cui vale la pena scrivere libri su questi temi. Non solo: è proprio questa indifferenza che dovrebbe spingere gli operatori del settore a cercare strumenti di comunicazione sempre più efficaci e aggiornati, per farsi sentire dalla comunità e condividere un patrimonio di storie che certo non può appartenere solo agli addetti ai lavori.
Rispetto al nostro Paese nello specifico, mi permetto di fare una considerazione: per accidente geografico ci troviamo ad essere, ci piaccia o meno, un corridoio dove in questi anni sta transitando la Storia (che, all’occorrenza, sa farsi tragedia). E abbiamo ancora bisogno che sia il Papa a porre con forza l’attenzione su questi temi. In questo caso mi viene da dire: beato il Paese che non ha bisogno del Papa.
Fare il suo lavoro implica confrontarsi e cercare di capire mondi e culture diversi: quali sono stati i punti di contatto che lei ed i suoi colleghi siete riusciti a trovare per instaurare un rapporto di fiducia con le persone richiedenti asilo?
Io uso spesso i termini “noi” e “loro”. Andrebbero sempre messi tra virgolette: sono concetti astratti, pericolosi e poco significativi. “Noi” chi siamo? L’Occidente? La Caritas? Udine? Abbiamo davvero delle caratteristiche ben definite e indiscutibili, delle radici comuni e intoccabili? E chi sono “loro”? Vengono da decine di culture diverse, parlano lingue diverse, hanno sensibilità e convinzioni diverse… l’unico elemento che hanno in comune è lo stato di profugo: una condizione che in passato hanno conosciuto anche molti italiani. Penso che il rapporto di fiducia si instauri quando l’operatore rinuncia a incasellare la persona che ha di fronte in una comoda definizione (“musulmano”, “africano”, “somalo”, ecc.) e si impegna a riconoscerla semplicemente come singola persona, con la sua identità. Se mi pongo allo stesso modo di fronte a tutti i sudanesi solo perché sono tutti sudanesi (“noi” siamo noi e “loro” sono loro), difficilmente si creerà un rapporto di fiducia. Bisogna fare la fatica di mettersi in relazione con persone e imparare a conoscere non dieci mondi diversi, ma duecento, se duecento sono i richiedenti asilo. Anche perché qualsiasi incasellamento identitario che fa comodo a noi non tiene conto delle identità che loro stessi si attribuiscono. Ad esempio: in un profugo io posso vedere un somalo, mentre lui vede in sé un padre e un membro del partito comunista, un abitante di Mogadiscio o un pescatore. Il mio incasellamento deve essere smantellato, e devo ricominciare tutto da capo: altrimenti riscriverò la storia della persona che ho davanti a mio piacimento, cosa che spesso tendiamo a fare (perché “noi” stiamo sopra di “loro”).
Nel suo libro parla anche dell’”inferno burocratico” che i richiedenti asilo devono percorrere. La burocrazia pare essere un gigante che tutto rallenta e molto divora – speranze, possibilità, occasioni di lavoro sfumate. Cosa potrebbe essere fatto, a suo avviso, per migliorare le cose?
È una domanda molto difficile e io non sono la persona adatta a risponderle. Probabilmente – faccio autocritica – io sono più bravo nella “parte distruttiva” piuttosto che in quella “costruttiva”, e comunque è ovvio che non ho le competenze per risolvere uno dei problemi chiave dell’accoglienza in Italia.
Mi limito a fare un esempio piuttosto scontato: scoppia l’emergenza Nord Africa e più di ventimila profughi sbarcano in Italia. Chiunque sia “del settore” sa che molti di loro non rientrano nei requisiti per l’ottenimento dello status di rifugiato. Eppure scappano tutti da una guerra (a cui tra l’altro l’Italia non è del tutto estranea). A questo punto è davvero la soluzione più sensata prevedere che tutti loro facciano domanda d’asilo, sapendo in anticipo che il sistema – come dico nel libro – andrà incontro a un “grippaggio” burocratico? Da un punto di vista amministrativo è assurdo, e da un punto di vista dell’accoglienza/integrazione è ancora più assurdo: queste persone finiranno in un gorgo di uffici, incartamenti, attese infinite… Saranno letteralmente ostaggio della burocrazia e dei decreti, e magari la loro domanda avrà anche un esito negativo (leggi: hai 30 giorni per lasciare l’Italia). E così è stato. Ma non basta: dopo due anni di limbo, lo Stato si decide per il “libera tutti”, con una “sanatoria” che dà respiro agli uffici e assegna una protezione umanitaria (1 anno di permesso) anche a chi aveva visto la propria domanda di asilo rigettata. Quei due anni di attesa, allora, a cosa o a chi sono serviti? Che significato hanno avuto? Non era possibile – scusate la banalità – pensarci prima?
Due domande scontate, ma dovute: l’ hanno cambiata questi incontri? Cosa le hanno insegnato queste donne e questi uomini di passaggio nel nostro paese verso la loro Itaca?
Voglio evitare la classica risposta: mi hanno dato più di quanto io ho dato loro, mi hanno fatto crescere, ecc. Non che sia vuota retorica, è solo che se così è stato voglio tenerlo per me e non sbandierare chissà che sviluppo interiore o superiorità morale dovuti a un lavoro con i profughi.
Gli insegnamenti, in ogni caso, sono ovviamente stati molti. Come ho già detto, il più radicale è stato quello riguardante il mio approccio alla Storia. Come scrivo nell’introduzione al libro, loro insegnano che la Storia non sta (solo) nei musei, ma viaggia anche lungo le piste del Sahara, attraversa il Mediterraneo su barche da pesca, attende nei CARA, nei CIE, in strutture vicino a casa nostra e delle quali non sappiamo nulla. È una Storia inarrestabile e silenziata, che probabilmente non avrà mai un suo museo, ma si limiterà a cambiare il volto dell’Europa e, in prospettiva, del cosiddetto Occidente.
Un altro insegnamento che non può fare a meno di incidere sul mio modo di guardare le cose è quello che riguarda gli incasellamenti di cui ho parlato prima. Incasellare persone, fenomeni o eventi è tanto necessario quanto inconcludente. È necessario perché ci è impossibile sospendere il giudizio e rimanere del tutto fluidi nel nostro atteggiamento verso gli altri. È inconcludente perché ogni incasellamento fa presto a saltare: la questione è sempre più complessa di quanto ci aspettassimo, l’area grigia ci costringe a guardare con più attenzione, a sollevare dubbi, a stare incerti. Ecco, probabilmente ho imparato a stare incerto. Può sembrare un esercizio di scetticismo e menefreghismo. A me sembra una complicata scuola di sensibilità e rispetto verso a un fenomeno sfaccettato – e impermeabile ai facili slogan – come la realtà.
Già una complicata scuola di sensibilità: grazie Michele perché con il suo libro ci ricorda, senza retorica, come la realtà possa essere dura da affrontare, come dietro ai freddi numeri delle statistiche riguardanti i migranti e i rifugiati, ci siano storie, vite, sofferenze e speranze. Buon lavoro a te quindi, e a tutti noi.