Obama, un discorso attendista (in politica estera)

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Il discorso di insediamento alla Casa bianca per un nuovo mandato presidenziale è sempre un pronunciamento atteso che fa il giro del mondo. Tutti i media ne parlano. Così è avvenuto in occasione del giuramento di Obama. Il suo discorso è valutato parola per parola dalle diplomazie di alleati e di nemici storici degli USA e commentato con attenzione da qualunque analista che vuole capire qualcosa del futuro della politica internazionale. Vale la pena soffermarsi su alcuni commenti provenienti dal mondo arabo e dalla Cina, senza dimenticare quello che si dice in Italia.

Ci sono stati richiami continui alla Dichiarazione di indipendenza americana e ai diritti fondamentali "della vita, della libertà e della ricerca della felicità", e in generale alla necessità di un'azione concreta a tutela dei diritti di ogni cittadino americano (e non) abbastanza accentuati. Liberal hanno scritto i quotidiani statunitensi. Poi Obama si è soffermato su alcuni diritti: diritto alla salute (e dunque la famosa riforma promossa dal precedente mandato), diritto alla libertà sessuale (diritti dei gay), diritto alla non discriminazione (un accenno alla questione razziale era d'obbligo), diritto alla ricerca di una condizione migliore (apertura all'immigrazione), diritto a uno sviluppo sostenibile (forse una critica alla mancata adesione statunitense al Protocollo di Kyoto), diritto alla sicurezza nelle scuole (e non diritto al possesso delle armi come da 2° emendamento della Costituzione, in un momento di estrema tensione in questo ambito) e molti altri. Non così si può dire per la politica estera.

La maggioranza dei media arabi hanno sottolineato l’ambivalenza del discorso di Obama che non ha citato né gli alleati storici nella regione (soprattutto quelli della penisola arabica, in primis la monarchia saudita) né la fantomatica “asse del male” così cara al suo predecessore Bush. Il presidente inizia il suo secondo mandato con uno spirito attendista: non è previsto alcun intervento militare diretto in Siria e neppure contro l’Iran, benché sulla questione del nucleare iraniano continueranno pressioni di ogni tipo, senza escludere la possibilità di una guerra. Due quotidiani in arabo, uno edito in Qatar, l'altro a Londra sottolineano questo dilemma. Asharq Al-Awsat, “il Medio Oriente”, intitola il suo commento principale “Novità da Obama: combattimento o tregua?”. Siamo al bivio, sostiene l’analista, ma non si è ancora in grado di decifrare le scelte presidenziali in un momento di difficoltà geostrategiche per gli Stati Uniti in Medio Oriente. Obama potrebbe essere ancora più conciliante e cercare il dialogo, tuttavia il contesto potrebbe non essere conciliante con lui: la “primavera araba” è in pieno svolgimento, in molti paesi salgono le tensioni e il terrorismo si sta nuovamente diffondendo (il caso del Mali è soltanto un esempio circoscritto). Insomma per il presidente il cammino è in salita.

Più netto il giudizio che si legge su Al Quds Al Arabi (“Gerusalemme araba”, quotidiano londinese che rispecchia posizioni più estreme rispetto al giornale citato in precedenza): secondo lo storico direttore, il palestinese Abd al-Bari Atwan, Obama è stato abbastanza chiaro, ma ha deluso gli arabi. Dal suo intervento si può dedurre che gli Stati Uniti non rilanceranno in alcun modo il processo di pace tra israeliani e palestinesi (ha già scontentato Netanyahu per via dell’Iran) e non impedirà la realizzazione di nuove colonie; Obama cercherà di non intervenire direttamente in Siria o in Iran servendosi degli alleati della NATO oppure sostenendo milizie locali; nel lungo periodo il presidente continuerà nella strategia della progressiva riduzione della dipendenza energetica americana dal petrolio arabo. In conclusione però è evidente che Obama si concentrerà sugli affari interni e sulla crisi economica.

Accenti simili si colgono in un articolo di Mario Del Pero, attento studioso di politica americana, pubblicato su “Il Messaggero”. Così si legge tra l’altro: “Sui terreni, cruciali e intrecciati, della politica estera e di quella economica si giocherà però la partita decisiva. Ambiti, questi, ricchi di dilemmi e contraddizioni rispetto ai quali la coperta immaginata da Obama e dai suoi consiglieri potrebbe infine rivelarsi troppo corta. L’obiettivo di ridurre le spese per la difesa, disimpegnarsi dai teatri iracheno e afghano, proseguire la campagna anti-terroristica globale e sostenere le forze della primavera araba è stato promosso attraverso una combinazione apparentemente paradossale, nella quale la spregiudicatezza operativa si è combinata con la cautela diplomatica, l’uso ampio di strumenti non ortodossi con il rifiuto d’impegnare direttamente le forze armate statunitense e i loro mezzi senza pari. Ne è derivata una politica basata su operazioni clandestine, utilizzo intensivo dei droni, eliminazioni mirate di terroristi o sospetti tali, pratiche – su tutte la rendition – simili a quelle utilizzate negli anni di Bush. Ma ne è derivata anche la scelta di delegare a terzi la guida di importanti azioni internazionali, in occasione ad esempio dell’operazione che ha portato alla caduta del regime di Gheddafi in Libia, o di agire con cautela prossima alla passività, come nel caso della Siria o dell’ultima crisi in Mali.

Vicenda, questa, rivelatrice dei limiti e delle contraddizioni di un interventismo low cost come quello che sembra definire la politica estera e di sicurezza di Obama. In virtù del quale rimane ignoto il rapporto tra il numero di terroristi che si eliminano e di quelli che, adottando certi metodi, si creano; si sostengono e addestrano forze locali che – come nel caso dell’esercito golpista in Mali – si rivelano infine inaffidabili; e si lascia ad altri la guida di operazioni che per essere portate a termine abbisognano però delle risorse e dei mezzi militari di cui solo gli Stati Uniti dispongono”.

Cambiando del tutto scenario, il Quotidiano del popolo, il giornale “ufficiale” del regime cinese, coglie nelle parole del presidente un’apertura per relazioni meno tese tra i due giganti. Facendo la tara della tipica posizione della Repubblica Popolare (riassumibile nel “noi saremmo disposti ad accordo generale e a rapporti di amicizia, ma sono loro che…”) di questi ultimi anni, è significativo comunque che la Cina, in un momento di grandissime tensioni con i vicini, dal Giappone alle Filippine, non voglia forzare la mano, attendendo anch’essa le concrete azioni di Obama.

Così questo breve e del tutto arbitrario giro del mondo di opinioni sul discorso presidenziale concorda su un punto: Obama deve ancora decidere cosa fare “da grande”. E tutti aspettiamo queste decisioni.

Piergiorgio Cattani

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