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Lavoro e sfruttamento, quali realtà e orizzonti?
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Immagine: Unsplash.com
Se parliamo di lavoro, inevitabilmente dobbiamo considerare il lavoro non dignitoso, quello sfruttato, quello sommerso. Le facce nascoste di un mondo che non riusciremo mai del tutto a capire o a esplorare proprio per la sua stessa natura, ma che dovremo sempre prenderci l’impegno di denunciare, di capire, di accompagnare verso una declinazione di giustizia più che mai necessaria. La World Social Agenda non poteva non considerare questi come aspetti imprescindibili di una riflessione da condividere con gli insegnanti e con il mondo della scuola, che nel lavoro non trova il suo immediato orizzonte espressivo, ma trova invece la possibilità di ripensare un futuro lavorativo costruito prima ancora come cittadini.
Ecco perché la WSA ha scelto di esplorare alcune riflessioni con due ospiti di rilievo: da un lato Stefano Liberti, giornalista e film maker, autore di inchieste sul caporalato e sugli scandali della filiera alimentare nella sua dimensione sia internazionale che italiana; dall’altro Paula Benevene, professoressa associata dell’Università LUMSA di Roma, Dipartimento di Scienze Umane, ed esperta di Psicologia del lavoro e delle Organizzazioni. Un confronto da diverse linee prospettiche, che convergono su un tema, fin da subito intenzionato a virare la rotta interpretativa e rendere più ricca la lettura del fenomeno.
Sia per il lavoro minorile che per il lavoro sfruttato in età adulta, in particolare per il caporalato, la visione dominante è quella della condanna tout court, della demonizzazione. Un atteggiamento indubbiamente giustificato dalle numerose realtà di cui siamo purtroppo a conoscenza, ma anche dalla comunicazione che ne viene data e dalle storie di sofferenza e privazione che emergono. Forse però non è l'unico approccio possibile, perché anche su questi ambiti, come su molti altri, gravano pregiudizi e interpretazioni equivoche, che causano talvolta una sovra-rappresentazione rispetto alla realtà.
Parlando per esempio di minori, i dati ILO 2016 ci danno questi numeri: i minori lavoratori tra i 5 e i 14 anni sono 264 milioni (economicamente attivi), ma di questi gli sfruttati sono 152 milioni. Non tutti i minori lavoratori sono sfruttati, dunque. Esistono per esempio quelli impiegati nei cosiddetti “lavori leggeri”, che per durata e tipologia non compromettono lo sviluppo del bambino/a o dell’adolescente e garantiscono la frequenza scolastica (p.es. consegna dei quotidiani, organizzazione di feste per bambini, volantinaggio, dog sitter, etc.). Un dato che mette in guardia da quell’approccio “terzomondista” che ha fagocitato un po’ tutte le forme di lavoro e, con la buona fede di voler difendere i minori, ha paradossalmente creato, a loro e alle loro famiglie, un danno: nell’eliminare qualunque forma di partecipazione attiva dei ragazzi, si è perso non solo un introito economico che andava a sostenere la rete familiare e parentale, ma anche un’occasione di crescita e di scelta per fare un’esperienza positiva di maturazione e di assunzione di responsabilità, nonché di conoscenza e di relazione.
Anche per il lavoro adulto in agricoltura e per il lavoro bracciantile, per lo più svolto da stranieri e nella percezione mediatica sempre e comunque sfruttato, occorre fare un’opera di de-ideologizzazione del fenomeno. La realtà dei fatti, al di là dei casi che detonano sui media, è molto più sfaccettata. Per esempio occorre chiarire le differenze tra caporalato e lavoro sfruttato, figlie di sistemi di filiera diversi. Da un lato il caporalato, dove di solito c’è un mediatore che organizza le squadre di lavoro per partecipare al raccolto e in cambio trattiene una parte del salario. La legge del 2016 condanna la figura del caporale, certo, senza però rilevare che questo tipo di sistema – ora illegale – è di fatto esito del mancato funzionamento degli strumenti legali, p.es. gli uffici di collocamento. È il paradosso dello stato stesso che combatte come criminale un sistema derivante dalle sue proprie disfunzioni. Dall’altro lato esiste lo sfruttamento lavorativo, che può essere sì legato al caporalato (nelle filiere a forte impiego di manodopera), ma può anche non esserlo. È il caso per esempio di chi è assunto con contratto agricolo (paga e numero di giornate definite), salvo poi lavorare complessivamente per più giornate e meno soldi (si tratta del cosiddetto lavoro grigio, molto più diffuso del lavoro nero e anche contemperato dalle parti a fronte di un meccanismo compensatorio dato dalla disoccupazione agricola).
Sono come spesso accade riflessioni che andrebbero inquadrate in un’ottica di filiera: l’imprenditore vende prodotti agricoli con prezzi molto contratti per garantire a sua volta la contrazione dei prezzi di vendita al consumo (soprattutto GDO, dove si sono moltiplicate le scontistiche e i sottocosto). Ma se qualcun altro sta pagando “i costi del sottocosto”, qualcuno li sta anche alimentando (non ultimi noi consumatori).
Senza contare la percezione stessa dei lavori “sfruttati”: esistono lavori inequivocabilmente percepiti come rischiosi per le condizioni in cui vengono svolti, per l'ambiente in cui si effettuano, per il tipo di mansioni che comportano. Ma ci sono lavori apparentemente "sicuri", che nascondono invece insidie i cui effetti sono a volte immediati, ma spesso diventano visibili solo nel lungo periodo: pensiamo soprattutto ad ambiti come lo spettacolo, i social, lo sport. Un esempio su tutti che riporta Benevene è quello della trasmissione Non è la Rai: ragazzine molto giovani, ipersessuate, che tutte volevano imitare. Ora però che hanno 40/45 anni, quelle ragazzine cresciute di quegli anni non raccontano come di un’esperienza felice, ma come un contesto di molestie sessuali e depressioni emerse in età adulta.
Molto più sensato, prosegue Liberti, sarebbe abbandonare il colonialismo delle buone intenzioni e pensare invece meccanismi cooperativistici o di protezione per offrire maggiori garanzie alle categorie più fragili, senza annullare completamente la possibilità di lavorare e quindi senza indirettamente costringerli ad accettare lavori ancora peggiori o illegali.
Di fatto il lavoro rimane sempre un’occasione: di guadagno, la più ovvia. Ma anche di crescita e di benessere, e per questo è perseguito da ciascuno/a di noi come uno degli obiettivi principali per la nostra realizzazione economica ma anche e soprattutto personale. Una spinta che ci accomuna tutti e che sta alla base anche della maggior parte delle migrazioni internazionali, fenomeno che vede l’erosione del ceto medio dei Paesi d’origine (Italia compresa) e che spopola il futuro di possibilità di riscatto, anche collettivo.
Abbiamo risposte? No. Abbiamo solo un mandato che non possiamo permetterci di ignorare. Leggere la realtà nella sua più ardita complessità e solo e soltanto dopo averla esplorata, provare a ipotizzare qualche alternativa possibile.
Anna Molinari

Giornalista freelance e formatrice, laureata in Scienze filosofiche, collabora con diverse realtà sui temi della comunicazione ambientale. Gestisce il progetto indipendente www.ecoselvatica.it per la divulgazione filosofica in natura attraverso laboratori e approfondimenti. È istruttrice CSEN di Forest Bathing. Ha pubblicato i libri Ventodentro (2020) e Come perla in conchiglia (2024). Per la testata si occupa principalmente di tematiche legate a fauna selvatica, aree protette e tutela del territorio e delle comunità locali.