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L’umanesimo di Albert Camus a sessant’anni dalla sua morte
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Foto: Pexels.com
Sono passati sessant’anni dalla scomparsa di Albert Camus. Se ne andò all’improvviso, il pomeriggio del 4 gennaio 1960, ucciso in un incidente stradale a pochi chilometri da Parigi. Ebbe il tempo però di lasciare parecchie risposte al nostro presente, dalla Primavera di Praga in poi.
Leggeremo che Camus ebbe il torto di aver avuto ragione troppo presto. Cercheremo forse invano, perché politicamente non corretto, l’eco della sua invettiva contro chi voleva distruggere lo Stato d’Israele con l’alibi dell’anticolonialismo, o ancora delle sue accorate parole contro la mistificazione dell’indipendenza algerina, anche se nell’indipendentissima Algeria sono stati sgozzazti migliaia di innocenti. Rassegnamoci a leggere soprattutto pezzi anodini o di pelosa resipiscenza da parte di intellettuali pentiti.
Sfidare chi sposa cause perse conviene sempre, perché prima o poi si finisce per aver ragione, ricorderebbe Giovannino Guareschi uscendo soddisfatto oggi dalla proiezione de La Rabbia, pellicola misconosciuta che documenta la turbolenta collaborazione tra il papà di Don Camillo e Pasolini. È un peccato che Camus non abbia avuto il tempo di vedere questo film, che è del 1963.
Albert Camus è stato, e in buona parte lo è tuttora, faccenda della sinistra, perché fu a sinistra che fecero scandalo i suoi articoli, i suoi libri e le sue scelte; fu la sinistra a scomunicarlo, ed è la sinistra che ha poi dovuto riabilitarlo. Ed è alla sinistra che Camus lasciò la sua eredità.
Nei due decenni che vanno dagli anni della Resistenza fino alla sua morte, le posizioni di Camus definirono in Francia soprattutto l’ ‘‘altra’’ sinistra, quella che si strinse durante la guerra e subito dopo la Liberazione attorno al giornale Combat, quella che ripudiava il principio che il fine giustifica i mezzi, perché l’uomo non vale tanto per le prodezze che è capace di compiere, quanto per quello che vieta a sé stesso di fare, per la capacità di resistere a sé stesso. Yes we can, certo, ma non qualsiasi cosa. Rifiutandosi di distinguere tra vittime sospette e carnefici con attenuanti, Camus non poteva non entrare in collisione con il Partito Comunista e con i suoi fiancheggiatori.
Quando nel ’68 si alzarono le barricate nel Quartiere Latino, parve di riconoscere Camus tra gli insorti del «ribellarsi è giusto», ma il loro DNA portava ancora il seme del nichilismo. Dell’esigenza della misura e del limite si perse ben presto ogni traccia nei deandreiani «cuccioli del maggio».
L’Homme révolté, l’uomo in rivolta nella traduzione italiana, rappresenta una pietra miliare dell’unico umanesimo che dai tempi della Ginestra di Giacomo Leopardi non ha mai dovuto intonare mea culpa, perché non ha mai sacrificato alcun essere umano ad alcun sacro traguardo.
«La tradizione camusiana in Italia da Giacomo Leopardi a Marco Pannella» è l’ardita sintesi di una comunicazione che ebbi a fare anni fa ai camusiani di Francia per raccontare il filone liberal-socialista italiano, il filone libertario, per usare il lessico camusiano: uomini – più di uno, tra l’altro, amico di Camus – come Piero Gobetti, Carlo e Aldo Rosselli, Ernesto Rossi, Piero Calamandrei, Nicola Chiaromonte, Ignazio Silone…
Tuttavia, gli inquisitori dell’epoca – epoca sartriana - avevano a che fare più con un blasfemo che con un eretico, che andava dicendo che lui la libertà l’aveva imparata nella miseria, la miseria dei quartieri proletari di Algeri o della Cabilia, no in Carlo Marx.
Doppiamente blasfemo, lui che vedeva in Cristo una vittima innocente in più che con il suo sacrificio «denuncia in Dio il padre della morte e il supremo scandalo». Molto cristianamente, tuttavia, sostenava l’autore della Peste che bisogna incontrare l’amore prima di incontrare la morale, altrimenti muoiono sia l’amore che la morale.
La teoria camusiana della liberazione rigetta in toto le teorie rivoluzionaristiche e messianiche. Il rivoltoso camusiano difende un valore preesistente, l’uomo e la sua natura, al contrario dell’esistenzialismo e delle dottrine storicistiche, nelle quali il valore è conquistato – ove lo si conquisti – al termine dell’azione.
«Ogni generazione crede di avere la missione di rifare il mondo. Il compito della mia generazione, diceva Camus, è forse ancora più grande. Consiste nell’impedire che il mondo si sfasci».
Conservatorismo? No. Fedeltà ai valori della rivolta, che è lotta continua e graduale, lotta quotidiana in difesa della democrazia, dello Stato di Diritto, della dignità umana. E poi, via, un conservatore non direbbe mai di preferire sempre e comunque il disordine all’ingiustizia! Chiedetelo a Guareschi. Confermerà.
Enrico Rufi