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Contador. Se il doping uccide lo sport
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I campioni del ciclismo almeno recente ci sono quasi tutti: ormai è una questione di cronometro e, a distanza di mesi o di anni, i vincitori delle più importanti corse, dal Tour de France al Giro d’Italia, finiscono per essere accusati di aver utilizzato sostanze dopanti e il più delle volte vengono squalificati. Dal caso Pantani del 1998 è tutto uno stillicidio che mina la credibilità di una disciplina, certamente gloriosa, che aveva fatto della fatica l’ingrediente principale di pagine indimenticabili di storia dello sport e non solo.
L’affare doping però è l’emblema della società basata sull’apparenza e sul consumo. Non è una prerogativa del ciclismo. Il doping è l’esatto contrario dello sport, è la prosecuzione dell’attività agonistica “con altri mezzi”, è il rovesciamento dei valori all’insegna del “tutto è possibile”. Lo sport dovrebbe essere una palestra di educazione per i giovani alla convivenza dei diversi ed ecco gli stadi trasformarsi nelle arene dell’insulto razzista e della demenzialità violenta. Per non parlare di vero e proprio palcoscenico per l’estremismo politico che finisce nell’eversione o in episodi di criminalità magari nei confronti degli stranieri. Eppure lo sport potrebbe portare anche altri valori.
L’ultimo caso, scoppiato in questi giorni, riguarda il ciclista spagnolo Alberto Contador, condannato dal Tribunale di Arbitrato Sportivo (Tas) di Losanna, il più alto organo giudicante, a due anni di squalifica, a partire dal 5 agosto del 2010, per la presenza nel suo sangue di clenbuterolo, prodotto anabolizzante che, presente fra l’altro in un vaso dilatatore bronchiale, sarebbe stato assunto per “coprire” sostanze vietate.
Scrive Famiglia Cristiana con la storica penna di Gian Paolo Ormezzano: “La vicenda di Contador, il più forte pedalatore di questi ultimi anni (tre Tour, un Giro, una Vuelta), capace fra l’altro di superare una delicata operazione al cervello, è un duro colpo al ciclismo, oltre che si capisce al corridore, privato fra l’altro, con effetto retroattivo della sentenza, delle vittorie in quel Tour de France e nel Giro d’Italia 2011, oltre che messo di fronte all’obbligo di enormi risarcimenti (premi e stipendi e sponsorizzazioni). Il Tour “passa” al lussemburghese Andy Schleck, secondo classificato, il Giro all’italiano Michele Scarponi (si ripete la vicenda del Tour 2006, la maglia gialla vinta da Floyd Landis statunitense ma data dopo un anno allo spagnolo Oscar Pereiro).
Il totale dell’iter giudiziario ha richiesto ben 565 giorni, una demenzialità, nel corso dei quali Contador era stato assolto dalla federazione spagnola, con fretta forse provocatoria, e dunque aveva ripreso a correre (e vincere), mentre la federazione internazionale (Uci) e l’agenzia mondiale antidoping (Wada) avevano presentato ricorso al Tas, l’Uci fra l’altro chiedendo anche per il corridore una forte multa. La sentenza di Losanna turba per la lunghezza del procedimento, più che per la decisione finale, che era attesa sia pure sotto forma di una sospensione più breve.
È possibile che ora Contador ricorra ad un tribunale civile, innescando una causa anche economica dai risvolti gravi e grevi. Ma intanto il mondo del ciclismo si spacca. I colpevolisti parlano di doping ormai entrato nel costume, nell’uso, nelle abitudini, con la mostruosa sensazione, vissuta da chi pedala, che “senza chimica non si vince”. Gli innocentisti danno atto al ciclismo di praticare un antidoping serio e continuo, punendo assunzioni anche infinitesimali di sostanze vietate, e in pratica facendo sulla sua pelle quello che tanti altri sport non fanno. Non c’è terra di mezzo fra i due atteggiamenti, come non c’era fra chi giudicava lo statunitense Lance Armstrong (sette Tour vinti di seguito) un grandissimo e chi lo pensava (uso di prodotti sospetti per curare postumi di un tumore) disinvolto baro “chimico”. …
Il mondo della bicicletta non ne esce affatto bene. Pizzicato al Tour del 2010, nel frattempo il campione spagnolo ha continuato a gareggiare (e a vincere). Dietro la scoperta della verità, una lotta tra “bande” puramente politica. Punito il ciclista (due anni di squalifica) e il suo direttore sportivo, quel Biarne Rjis reo confesso che voleva creare un’organizzazione professionistica autonoma dall’Uci
Questa l’analisi di Pier Augusto Stagi, direttore di Tuttobici, che fa considerazioni simili: “Il ciclismo ne esce male, e con esso il Governo della bicicletta (l’Uci) che ha accettato di far correre fino a ieri il fuoriclasse madrileno, senza sospenderlo preventivamente (come per esempio accaduto per Riccardo Riccò, ndr), facendolo vincere in lungo e in largo e ora, con un colpo di spugna su una lavagna, cancella tutto o quasi come se niente fosse. Il ciclismo è anche questo: per archiviare un risultato sportivo bisogna aspettare la prescrizione (otto anni per la giustizia sportiva): questo non è più tollerabile. Ha ragione Eddy Merckx che ha commentato la sentenza dal Qatar: «Qualcuno vuole far morire questo sport».
È stata una sfida legale estenuante, troppo lunga per essere considerata giustizia sportiva. Una battaglia legale senza precedenti nel mondo dello sport. Una schiera di avvocati e superperiti ingaggiati dal fuoriclasse spagnolo per cercare di smontare il teorema di colpevolezza sostenuto invece dal governo mondiale della bicicletta (Uci) e dall’agenziale mondiale dell’antidoping (Wada). …
Una brutta storia, con un pessimo epilogo. Una brutta storia, scritta malamente anche da chi avrebbe il dovere di tutelare il nostro sport (l’Uci) e non mandarlo al macello (visto che si parla di carne). Poca chiarezza, molta approssimazione, qualche sospetto: come quello di punire Contador, corridore diretto da Bjarne Riis (vincitore del Tour’96 e reo confesso, ndr) e quest’ulitmo oggi team manager del corridore spagnolo alla Saxo Bank, che da un anno è una delle teste pensanti impegnato a costruire e varare una nuova struttura professionistica assieme ad altri nove suoi colleghi di altrettante squadre di World Tour (la massima serie del ciclismo, ndr). L’obiettivo è chiaro: smarcarsi dall’Uci e creare un circuito alternativo, indipendente, capace di vendere il prodotto ciclismo senza chiedere permesso a nessuno: «Il ciclismo lo facciamo noi e noi dobbiamo essere i padroni di un circuito che può essere meglio gestito e meglio venduto», dicono all’unisono i dissidenti. Poco tempo fa il presidente dell’Uci, l’irlandese Pat Mc Quaid, aveva detto: «Ci sono manager che pensano di essere Bernie Ecclestone…». Con la sentenza del Tas di oggi, almeno uno dei manager è stato sonoramente battuto. Gli altri perlomeno avvertiti. Questa non è soltanto una lotta al doping fatta di carne e tracce di ftalati, ma di potere. Il potere anche di far crollare tutto”.
Comunque la si pensi i casi di doping sono devastanti perché certificano questa logica: devi vincere in qualsiasi modo perché ti conviene; diventi famoso e ricco, celebrato come campione; poi, se ti pescano, al massimo vieni squalificato; dovrai sopportare lo scandalo, pagare qualche ammenda agli sponsor, ma dopo alcuni mesi il circo ricomincia; tutti dimenticano e torni ad essere il campione osannato di prima. Imbrogliare conviene, ecco tutto. A livello concettuale quest’impostazione è identica a quella per cui puoi rubare i soldi pubblici, puoi corrompere, puoi intascare, perché alla fine ne uscirai tranquillo. La magistratura recupererà forse parte del maltolto ma una bella cifra resterà lì, nei paradisi fiscali, dove un giorno la ritroverai. Salendo di un gradino – ma sempre seguendo la stessa logica – sembrerà eticamente lecito guadagnare con il commercio di armi secondo il paradossale assioma “finchè c’è guerra c’è speranza”. Non esiste un limite morale.
Qualcuno potrà dire che questa visione è esagerata. In fondo si tratta solo di sport. Non è così, perché lo sport è praticato da moltissimi giovani e seguito in maniera massiccia dalle giovani generazioni. Il mix di televisione commerciale (scadente e costosa) e di sport malato (e imbroglione) è un devastante maestro di corruzione, mancanza di senso civico, desiderio illusorio di sfondare senza fatica. Davanti a questi modelli i giovani delle società occidentali rischiano di perdere in partenza la competizione – questa sì non virtuale – con i loro coetanei nel mondo che per davvero devono fare i conti per sopravvivere, devono lottare per studiare, devono rischiare la vita per il pane o per la dignità. Non c’è doping per chi combatte per la libertà.
Forse la politica, in ritardo, se ne accorge. Si rende conto che gli episodi negativi e illegali connessi allo sport si moltiplicano e vanno affrontati con provvedimenti complessivi. Recentemente anche il Parlamento Europeo è intervenuto: “Per combattere il doping, la violenza negli stadi, gli incontri truccati e gli abusi degli agenti sportivi c’è bisogno di un’azione più coordinata a livello europeo. È quello che chiede una risoluzione adottata dal Parlamento il 2 febbraio. Lo si legge sul sito del Parlamento. «L’entrata in vigore del trattato di Lisbona ha portato a una rivoluzione nello sport, perché ha creato per la prima volta una base giuridica appositamente per questo settore, l’articolo 165» ha dichiarato il relatore Santiago Fisas Ayxela (PPE, ES). Il testo è stato approvato con 550 voti a favore, 73 contrari e 7 astensioni.
Il Parlamento chiede che i tifosi violenti o coloro che si sono resi responsabili di comportamenti discriminatori siano banditi da tutti gli stadi europei. Una lista europea servirà a permettere alle diverse autorità nazionali di garantire che queste interdizioni restino in vigore anche negli incontri internazionali che potrebbero avere luogo sul proprio territorio. L’Aula invita poi gli Stati membri e le federazioni sportive a una politica più decisa contro gli episodi di razzismo e l’omofobia contro gli atleti.
Allo scopo di proteggere al meglio i giovani il Parlamento suggerisce che il traffico di sostanze dopanti sia assimilato ai reati di droga. Per combattere gli incontri truccati, il riciclaggio di denaro e gli incontri truccati, il Parlamento chiede che vengano messe fuori legge tutte le attività fraudolente e che venga istituito un sistema di licenze per gli operatori sportivi del settore delle scommesse”. Certo la repressione non risolverà il problema. Servono modelli positivi, anche nello sport. Se ne vedono pochi, almeno per ora.