Cina: pressioni sui monasteri in Tibet

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Come nel 2008 e nel 2009, le autorità cinesi hanno inasprito le pressioni contro i monasteri buddisti in Tibet dove con il 1 novembre 2010 entreranno in vigore nuove e più dure norme di sorveglianza emanate dall'autorità religiosa statale. Il governo cinese ha apertamente comunicato di voler così diminuire l'influenza del Dalai Lama, l'autorità spirituale dei Tibetani. Si tratta, per l’Associazione per i popoli minacciati, di una nuova e pesante limitazione della libertà di culto in Tibet con cui il governo cinese vìola, sia la stessa legislazione cinese, sia la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani.

Le nuove norme di sorveglianza sono state annunciate sabato scorso sul sito web dell'autorità religiosa cinese e una relativa circolare è stata distribuita ai monasteri tibetani. I monasteri non potranno più essere controllati da persone e organizzazioni straniere. “Nessuno – secondo l’Associazione per i popoli minacciati - potrà strumentalizzare il buddismo tibetano per sovvertire l'ordine sociale vigente, ledere l'interesse pubblico e mettere in pericolo il sistema scolastico statale”.

La gestione di alcuni siti religiosi per il governo cinese sarebbe quindi caotica e i monasteri si sarebbero ingranditi eccessivamente tanto che le nuove norme si sono rese necessarie perché “l'influenza esercitata da separatisti stranieri ha spinto un numero crescente di monaci e monache allo svolgimento di attività che mettono in pericolo l'unità nazionale”.

Secondo l'Associazione per i popoli minacciati questo provvedimento potrebbe annunciare ulteriori pogrom politici nei monasteri tibetani, soprattutto considerando la posizione della Cina che continua a vedere la questione tibetana come un problema militare ancor prima che religioso. A partire dagli anni '90 del '900, infatti, le autorità statali cinesi hanno nominato abati pro-regime per tutti i monasteri. Oltre 12.000 monache e monaci hanno dovuto lasciare i propri monasteri perché si rifiutavano di prendere le distanze dal Dalai Lama.

Pochi giorni fa si è inoltre saputo che nel giugno 2010 i monaci tibetani Jampel Wangchuk e Kunchok Nyima sono stati condannati in processi segreti a 20 anni di carcere per aver partecipato durante la primavera 2008 a proteste contro il governo cinese. Da allora presso il loro monastero di Drepung è stato istituito un posto di polizia.

Similmente in seguito alle proteste del 19 settembre 2010 in cui 50 monaci del monastero Mindroling avevano chiesto che il loro Lama potesse visitarli, le autorità statali hanno arrestato altri due monaci e inviato 80 collaboratori dell'autorità statale religiosa per la rieducazione dei monaci del monastero.

Ma a preoccupare non sono solo queste ultime derive. A cominciare da Amnesty International sono numerose le organizzazioni internazionali per i diritti umani hanno denunciato un aumento del numero di prigionieri politici tibetani nell’ultimo anno. “Le autorità hanno bloccato il flusso di notizie verso e dalla regione e hanno impedito il monitoraggio indipendente della situazione dei diritti umani”.

“I diritti dei tibetani alla libertà di espressione, religione, riunione e associazione - afferma Amnesty - hanno continuato a essere gravemente limitati. Le autorità cinesi sono divenute più intransigenti nelle loro politiche internazionali riguardanti la tematica tibetana, rilasciando dichiarazioni pubbliche che suggerivano la volontà di punire alcuni paesi sul piano economico e diplomatico per il loro percepito sostegno al Dalai Lama e alla causa tibetana”.

Dopo l’incontro di febbraio del Dalai Lama con Obama e il recente Nobel per la pace a Liu Xiaobo l’Associazione per i popoli minacciati teme “un ulteriore stretta attorno alle libertà del Tibet” e viste le prese di posizione del governo cinese la pressione internazionale sembra talvolta ancora più pericolosa per le sorti tibetane. Un timore confermato da una vecchia analisi di Stefano Cammelli, storico ed esperto di Cina. “Urlare “Tibet libero” significa fare un gran favore all’ottuso regime di Pechino il quale, per la sua natura di regime, non può avere altra reazione che quella di irrigidirsi nelle sue posizioni brutali e retrograde. Le proteste pro-Tibet che infiammano gli occidentali [...] non risolvono il drammatico problema del comportamento tenuto dalle autorità cinesi negli ultimi sessant’anni. Anzi, semmai lo aggravano perché, quando viene attaccato dall’Occidente, il regime cinese si rafforza rinsaldando lo spirito patriottico contro ‘il nemico esterno’. Funziona così per tutti i regimi, da Castro a Ahmedinejad.

Quello che non può mancare, tuttavia, come ricorda l’associazione Italia - Tibet “è l’informazione puntuale e non sempre facile su quanto accade all’ombra delle montagne e dei monasteri di Lhasa”.

Alessandro Graziadei

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