Talebani, le due anime del movimento

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Nel V anno dalla proclamazione dell’Emirato islamico dell’Afghanistan, un fokker delle Nazioni Unite ci portò a Jalalabad, uno dei pochi ingressi nel Paese che mullah Omar governava da Kandahar, la città più tradizionalista del Paese dove Omar era nato e aveva fondato il movimento degli studenti coranici. Era l’anno 2000, ventun anni fa. Le formalità doganali venivano espletate da due ragazzi col kalashnikov che non sapevano né leggere né scrivere sulla pista di un malconcio aeroporto assolato dove stazionava un Dc-10 dell’Ariana, la vecchia compagnia di bandiera. Aveva i finestrini oscurati ma, sbirciando tra gli scatoloni che ne venivano scaricati, notammo i brand occidentali di radio o televisori che venivano dal Golfo. Allora, quando attraversammo un Paese in sfacelo, senza più strade e dove si erano rubati tutti i fili di rame dell’elettricità, solo Pakistan, EAU e Arabia saudita avevano riconosciuto l’emirato scalcinato che a Kandahar contava su un solo telefono pubblico e in cui le strade erano pattugliate dai pickup, la chiave della rapida avanzata talebana dal Pakistan verso Jalalabad e poi sempre più all’interno del Paese.

Oggi le cose sono cambiate. E non solo perché i pickup hanno cilindrate più potenti o perché ogni combattente ha un telefonino. Quell’emirato di rozzi contadini allevati nei campi profughi del Pakistan, cui la riscossa religiosa pareva anche la riconquista di una dignità, non è più così anche se non sappiamo esattamente cosa sarà. Né il vertice politico dei talebani odierni è lo stesso di allora, disposto ad accontentarsi del riconoscimento internazionale di soli tre Paesi o dei soldi di un bin Laden, motivo per il quale i nazionalisti pashtun di Omar avevano accettato di buon grado il facoltoso ideologo saudita.

Che non siano più gli stessi lo si capisce, per partire dalla guerra, dalla capillare rete di intelligence costruita mentre si negoziava a Doha con gli americani o, osserva qualcuno, da anni.

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