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Anche fare film è questione di genere?
Riconciliazione
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Foto: Unsplash.com
Ultimamente ce ne siamo probabilmente accorti. Nei film e nelle serie TV è in atto un sottile lavorio per “normalizzare” le differenze: il personaggio tipo, di questi tempi, è nero immigrato con preferenze sessuali non etero, se capita pure con una qualche forma di disabilità. Ok, forse ho esagerato, ma resta il fatto che pur di essere politicamente corretti forziamo la realtà finché quasi non la riconosciamo. Chissà se questo protagonismo delle specificità etniche, sessuali e fisiche stia portando a qualche risultato. Speriamo di sì, per lo meno per quanto riguarda il rapporto tra umano e IA, che porta a galla le difficili problematiche legate a “cos’è per noi vero”, di cui vi abbiamo già parlato. Però l’attenzione va puntata anche dietro la telecamera, dove c’è ancora parecchio da lavorare.
“Sempre forestieri, uomini e bianchi”. È così che, quasi all’unisono, tre registe indigene dipingono il prototipo del regista nell’ambito dei documentari naturalistici. E lo fanno raccontando a The Guardian il loro pioneristico lavoro in Africa, Amazzonia e India, con l’auspicio di spianare un po’ di più la strada alle donne delle prossime generazioni che desiderano costruirsi una carriera nel mondo del film-making.
Perché la strada da percorrere è ancora lunga. Quando Fiona Tande, fondatrice di Pridelands Films e del Pridelands Wildlife Film Festival, ha iniziato la sua carriera nell’industria cinematografica keniota, le uniche persone “simili a lei” erano cuochi o guide: “C’è ancora tanto razzismo in questo ambito, dilagante ma non dichiarato”. Le ricadute non sono affatto banali, non solo, com’è intuibile, in termini individuali, sociali e di pari opportunità, ma anche in termini ambientali: le persone si sono allontanate dalla natura, perdendo le speranze di una carriera in questo settore e al contempo di poter fare qualcosa e far sentire la loro voce nel mondo dell’ambientalismo. Ecco perché la Pridelands Films è un’impresa cinematografica con base in Kenya che si propone di collegare le troupe straniere con i film-makers che già operano nel Paese. Un lavoro titanico ma necessario, sfociato anche nel Festival omonimo, che quest’anno ha radunato oltre 100 registi da Uganda, Tanzania, Kenya e Sudafrica, dando prova di talenti per cui normalmente scarseggia la fiducia a livello sia locale che globale. “È molto più interessante raccontare storie che riguardano l’Africa wild, ma dalla nostra prospettiva” afferma Tande. È quello che per esempio accade nel film Kuishi na simba, Vivere con i leoni, della regista tanzaniana Erica Rugabandana, che ha esplorato il mondo della tutela della fauna selvatica in un Paese che, per quanto riguarda “il re della foresta”, ospita il 40% degli esemplari selvatici a livello mondiale, di cui però il 60% vive fuori dalle aree protette e quindi è minacciato dal conflitto con la presenza umana: uno sguardo sulla coesistenza, con tutte le complicazioni e le sfaccettature che, anche alle nostre latitudini, appartengono alle dinamiche di compresenza tra uomo e grandi carnivori.
Ma torniamo alle donne: in Africa restano poche le registe, perché quella della film-maker non è un’opzione tra quelle che vengono presentate a scuola, è costosa e alcune ragazze sono scoraggiate dagli aspetti più tecnici del lavoro. La loro partecipazione però è vitale e fondamentale, proprio in quanto capaci di raccontare storie da prospettive molto diverse da quelle maschili, che si concretizzano anche nel lavoro sul campo (come per esempio quello della prima ranger donna in Kenya, Constance Mwandaa).
Un punto di vista che accomuna altre due registe, che hanno voluto dar voce a questa “battaglia di settore” che punta a rendere migliore e più equo un pezzo di mondo dominato dalla presenza maschile e “coloniale”. Priscila Tapajowara, per esempio, è una regista indigena della tribù Tapajo, uno dei 13 gruppi etnici della regione Baixo Tapajòs nell’Amazzonia brasiliana. Un’area dove da anni si incontrano attivisti e multinazionali dello sfruttamento della terra e dove Priscila, incoraggiata dal padre, ha iniziato a lavorare come fotografa per documentare la vita delle comunità indigene, fino ad approdare al cinema diventando direttrice e coordinatrice dell’Amazon film festival e della testata Mídia Indígena. Fa eco, all’entusiasmo ma anche alla necessità di continuare a lavorare perché anche le donne possano nel mondo affermarsi come voci che lo sanno raccontare, a maggior ragione quando lo abitano e lo custodiscono, la voce di Rita Banerji, fondatrice di un programma di formazione in India dedicato proprio agli aspiranti registi. Il suo Green Hub è punto di incontro di passioni, apprendimenti e progetti dedicati soprattutto alla tutela ambientale e al riscatto sociale, ottenendo nel tempo anche risultati per nulla scontati, come il livello di protezione più alto che lo Stato indiano garantisce a favore degli squali balena, protagonisti loro malgrado del documentario Shores of Silence.
È con la sua frase che chiudo questo pezzo: “Non possiamo parlare di conservazione senza comunità, né possiamo parlare di sviluppo rurale o benessere collettivo senza la protezione delle risorse naturali”. Una lettura che forse, ma senza generalizzare, le donne possono aiutare a rendere più spontanea, diffusa ed evidente in quell’intreccio di connessioni imprescindibili e fondamentali per il rispetto dei diritti umani e delle pari opportunità. In ogni area possibile, da quelle naturalistiche a quelle lavorative a quelle sociali, senza arrendersi.
Anna Molinari

Giornalista freelance e formatrice, laureata in Scienze filosofiche, collabora con diverse realtà sui temi della comunicazione ambientale. Gestisce il progetto indipendente www.ecoselvatica.it per la divulgazione filosofica in natura attraverso laboratori e approfondimenti. È istruttrice CSEN di Forest Bathing. Ha pubblicato i libri Ventodentro (2020) e Come perla in conchiglia (2024). Per la testata si occupa principalmente di tematiche legate a fauna selvatica, aree protette e tutela del territorio e delle comunità locali.