Iraq: il ritiro degli alleati nell'insicurezza

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Mercoledì 30 novembre. E' il giorno dell'atteso discorso di Bush, che ribadisce i suoi punti fermi: in Iraq va tutto sempre meglio, e gli Usa non si ritireranno finché lui sarà presidente. Ma il ritiro delle truppe è già cominciato: non di quelle statunitensi, ma di quelle degli altri paesi che partecipano alla missione in Iraq. Della "coalizione dei volenterosi", forte all'inizio di 44 membri, fanno oggi parte meno di venti paesi. Le ultime truppe in ordine di tempo a partire sono quelle dell'Ucraina, che pochi giorni fa hanno lasciato all'esercito iracheno il controllo della città di Kut.

Dopo due anni, gli iracheni continuano a chiedere di governare in maniera autonoma: i risultati dell'ennesimo sondaggio, condotto da un centro di ricerca iracheno, mostrano che la maggioranza degli intervistati vuole il ritiro immediato delle truppe di occupazione dal paese, e rifiuta la presenza straniera in Iraq sotto qualunque forma essa venga regolamentata. Di recente, i lavoratori della centrale elettrica di Musseyba, nei pressi di Baghdad, hanno visto la loro fabbrica trasformata in una base militare dalle forze armate statunitensi : anche questa è occupazione.

La questione della necessità di un ritiro è stata sancita anche dalla riunione preparatoria alla conferenza di riconciliazione nazionale, che si è svolta al Cairo dal 19 al 21 novembre. Per la prima volta, le diverse forze politiche irachene si sono trovate d'accordo nel chiedere il ritiro delle forze straniere dal paese secondo un calendario. Forse questo è il motivo per cui il tema sembra meno all'attenzione della campagna elettorale in vista del voto del 15 dicembre. Vengono invece alla luce gli altri problemi che affliggono l'Iraq: non a caso l'ex premier Iyad Allawi ha di fatto aperto la sua campagna elettorale presentandosi come paladino dei diritti umani.

Del resto sarebbe impossibile non parlarne: sono sempre più numerose le denunce degli abusi della polizia, come ricorda il settimanale Observer in un suo recente articolo, che si intrecciano con quelli commessi dalle milizie , spesso protette dalla stessa polizia. Senza parlare poi degli omicidi mirati, che hanno causato in due anni la morte di oltre duecento docenti universitari. Sono i morti non contati , quelli nascosti, quelli dimenticati: intere categorie professionali che rischiano di sparire dal paese, mettendo a repentaglio il suo futuro intellettuale. L'assenza di sicurezza e di diritto, sia essa provocata dalla polizia irachena o dalle milizie, colpisce adesso anche la piccola economia: secondo quanto riportato dal quotidiano iracheno Azzaman, sono duecento i commercianti di Baghdad che negli ultimi mesi hanno scelto di chiudere la propria attività e di fuggire all'estero. Il crollo dell'economia quotidiana è segno di un paese sempre più povero, dove si fugge da un luogo all'altro cercando di sopravvivere con i pochi soldi a disposizione e il poco lavoro.

La situazione dell'Iraq dunque non è così rosea come l'ha descritta George W. Bush nel suo discorso. E il timore che possa diventare evidente a tutti spinge i militari in Iraq a scrivere essi stessi gli articoli sui giornali, immaginando un paese che non c'è.

Difficilmente scriveranno di quello che avviene nella provincia di Maysan, da mesi sottoposta ad una "guerra di logoramento" , o racconteranno dei profughi e degli sfollati della provincia di Al Anbar. In Iraq, va tutto per il meglio. [AT]

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