Iran, Usa, Israele. Cosa possiamo aspettarci

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Immagine: mappa dello Stretto di Hormuz su GoogleMaps

Cosa ci racconta il folle bombardamento statunitense che, nella notte, dovrebbe aver distrutto il programma nucleare iraniano? Nell’immediato molte cose e molte altre emergeranno nei prossimi giorni.

La prima: le bombe statunitensi sull’Iran  mostrano la debolezza di Israele, che ha iniziato una guerra che non poteva vincere. Non ne aveva e non ha i mezzi tecnici – vale a dire le bombe per scalfire i bunker atomici iraniani -, non ha e non avrà il “fiato”, inteso come insieme di risorse economiche, industriali e di consenso, per pensare di vincere sul lungo periodo. Israele ha un’economia dipendente da tutto il Mondo e una situazione interna complessa: su 10.00 di abitanti, circa 4milioni sono arabo israeliani, cittadini di serie B, un milione e mezzo sono integralisti  ebrei. E’ una società frammentata, che rischia lo scontro. Il consenso al regime è senz’altro scarso anche in Iran e la folta colonia azera – circa 20milioni di abitanti – è fermamente filo israeliana. Ma i numeri, demografici ed economici, oltre alla storia, dicono che l’Iran ha gli strumenti per resistere a lungo.

Così, l’intervento degli Stati Uniti è diventato inevitabile. La “bunker buster”, la bomba anti bunker da 13.600 chili sviluppata dalla Us Air Force era diventata indispensabile per pensare di fiaccare Teheran. Le notizie sui risultati militari ottenuti oscillano. C’è chi parla di “programma nucleare iraniano devastato” e chi sostiene che molti dei siti hanno di fatto retto il colpo. Mohammad Manan Raisi, deputato del Parlamento iraniano di Qom, dove si trova l’impianto nucleare di Fordow, ha spiegato che “non si è verificata alcuna emissione di materiale pericoloso dal sito nucleare dopo l’attacco, poiché il materiale a rischio era stato evacuato dal sito”. Solo parte degli edifici sarebbe stata attaccata e la difesa aerea avrebbe evitato il peggio. Sul piano internazionale e politico, invece, l’attacco è stato devastante. La prima e peggiore conseguenza sarà la chiusura dello stretto di Hormuz.

Per chi ha voglia di guardare un Atlante: lo stretto di Hormuz è il piccolo braccio di mare che divide l’Iran dalla penisola Arabica. Mette in comunicazione il Golfo di Oman con il Golfo persico. Lungo 60 chilometri, largo appena 30 e poco profondo, può essere bloccato facilmente. Di lì passa circa il 30% del petrolio mondiale e del gas naturale, cioè tutto quello esportato da Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Iraq, Qatar e, naturalmente, lo stesso Iraq. Per le economie mondiali, soprattutto europee, sarà un disastro peggiore di quelli – i più giovani facciano un ripasso di storia – del 1973 e del 1979. Giusto per fare un esempio: gli analisti dicono che la benzina potrebbe superare i 4euro al litro, per un lungo periodo.

Sul piano militare le incognite sono molte, ma vi sono alcune certezze.  I 40mila statunitensi schierati nelle basi del Vicino Oriente possono diventare facile bersaglio dei missili iraniani, che hanno dimostrato buonissima efficienza nell’attacco ad Israele di questi giorni. La difesa aerea di Tel Aviv, fra le più efficienti del Mondo, è riuscita a fermare solo il 40% circa di quanto gli è arrivato addosso. Le basi statunitensi non hanno una difesa aerea altrettanto efficiente: facile immaginare il disastro. D’altro canto, è quasi impensabile per gli Stati Uniti immaginare un’azione di terra. Troppi gli ostacoli naturali da superare, complessa la macchina logistica da approntare e, soprattutto, l’esercito iraniano è forte di circa 900mila uomini, in questo momento molto motivati. A questo si aggiungono le azioni sparse che gli alleati dell’Iran, hezbollah in Libano, Houthi nel mar Rosso, potrebbero mettere in campo contro tutti gli alleati di Stati Uniti e Israele, Europa e Italia comprese.

Certo, resta l’opzione, spesso caldeggiata da Netanyahu, di usare ordigni nucleari contro l’Iran e farla finalmente finita. Gli attori in campo – Netanyahu appunto e Trump – hanno mostrato di possedere sufficienti elementi di pazzia da poterlo fare. Il guaio, però, è che l’attacco all’Iran ha ricompattato il quadro delle alleanze attorno all’Iran. Il Pakistan, potenza nucleare con circa 165 atomiche, ha già garantito pieno appoggio a Teheran, offrendo la “copertura nucleare” in caso di attacco. Russia e Cina, rispettivamente 6.257  e 350 testate, in queste ore hanno detto lo stesso, pur auspicando una soluzione diplomatica. Soluzione che, però, appare lontana: Teheran non ha alcuna intenzione di lasciar perdere e quindi il Mondo deve aspettarsi una risposta a breve.
Una buona incognita ci viene dall’atteggiamento dei Paesi musulmani, quelli arabi nello specifico. Da due anni tiepidi – assai tiepidi – rispetto al genocidio palestinese, in questa crisi sembrano barcamenrasi  fra il proprio interesse politico ed economico, l’Arabia saudita è nemica giurata ddell’Iran  e i richiami all’unità dell’Islam. La realtà è che continuano a non muovere un muscolo, aspettando che passi la tempesta.

Ultima considerazione, la peggiore: siamo ufficialmente tornati indietro di trecento anni. Le dichiarazioni di Netanyahu e Trump oggi lo spiegano: “prima la forza, poi la pace”. Significa, in modo esplicito, che saranno i signori della guerra a imporre la pace, decidendo loro regole e modi. La pace non sarà più il risultato di accordi e cooperazione, ma sarà il segno di resa del più debole al più forte. Un modello che diventerà tale anche sul piano interno, in ogni Paese che ancora conserva un simulacro di libertà e di rispetto dei diritti umani: le democrazie saranno spazzate via dal ritorno a l’autocrate vincente, che distrugge ogni possibile opposizione e impone la propria forza. Le due cose viaggiano in parallelo, ma pochi sembrano accorgersene.

Raffaele Crocco

Sono nato a Verona nel 1960. Sono l’ideatore e direttore del progetto “Atlante delle Guerre e dei Conflitti del Mondo” e sono presidente dell’Associazione 46mo Parallelo che lo amministra. Sono caposervizio e conduttore della Tgr Rai, a Trento e collaboro con la rubrica Est Ovest di RadioUno. Sono diventato giornalista a tempo pieno nel 1988. Ho lavorato per quotidiani, televisioni, settimanali, radio siti web. Sono stato inviato in zona di guerra per Trieste Oggi, Il Gazzettino, Il Corriere della Sera, Il Manifesto, Liberazione. Ho raccontato le guerre nella ex Jugoslavia, in America Centrale, nel Vicino Oriente. Ho investigato le trame nere che legavano il secessionismo padano al neonazismo negli anni’90. Ho narrato di Tangentopoli, di Social Forum Mondiali, di G7 e G8. Ho fondato riviste: il mensile Maiz nel 1997, il quotidiano on line Peacereporter con Gino Strada nel 2003, l’Atlante delle Guerre e dei Conflitti del Mondo, nel 2009. 

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