La strada dell’inferno è lastricata di buone intenzioni (verdi)

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Foto: A. Graziadei ®

Un vecchio adagio popolare ci ricorda che “La strada dell’inferno è lastricata di buone intenzioni”. Un punto di vista che i ricercatori dell’Universität Bonn hanno tenuto presente nell’analisi di alcune politiche ambientali analizzate nel numero speciale di Environmental Research Letters con l’approfondimento Focus on Leakage: Informing Land-Use Governance in a Tele-Coupled World secondo il quale alcune politiche tese a combattere i cambiamenti climatici e l’inquinamento possono produrre anche impatti imprevisti e controproducenti per l’ambienteQuesto non vuol dire che non è necessario o è addirittura dannoso il già limitato impegno della politica nella tutela ambientale, ma che se tale impegno non è ragionato su scala globale e supportato da un’analisi scientifica, gli insuccessi potrebbero essere più dei successi! Per i ricercatori tedeschi, infatti, “Senza un’adeguata supervisione e pianificazione, le politiche ambientali possono portare a effetti collaterali indesiderati e dannosi […], che i pianificatori non avevano previsto in fase di progettazione”. Per questo secondo Jan Börner, docente all’università di Bonn, “È fondamentale valutare in anticipo le potenziali conseguenze indesiderate e, se necessario, regolamentare o addirittura staccare la spina prima che sia troppo tardi. A tal fine, dobbiamo capire meglio come si verificano questi cosiddetti effetti spillover e come possono essere ridotti al minimo”. 

Oggi, infatti, le relazioni causa-effetto nel sistema ambientale globale sono sempre più complesse. Per il professor Börner, al momento, “I modelli della dinamica globale dell’utilizzo del suolo non fanno previsioni esatte. La loro precisione è troppo bassa. Contrariamente alle simulazioni bio-fisiche, nei sistemi gestiti dall’uomo predominano i fattori psicologici, economici e sociologici. Questo li rende quasi inutili come strumenti di previsione”. Tuttavia, le simulazioni costruite attorno alle politiche ecologiche possono mostrare quali conseguenze possono avere e anticipare le misure migliori per ridurre gli effetti collaterali indesiderati. La raccolta di articoli in questo numero speciale di Environmental Research Letters contribuisce a mettere a fuoco il problema partendo da un esempio concreto come quello della bioplastica, spesso vista come un'alternativa verde, sostenibile ed ecologica ai prodotti in plastica a base di petrolio.  In realtà dall’Università di Bonn evidenziano che “Mentre è vero che le materie plastiche a base di mais, grano o canna da zucchero sono, in linea di principio, climate-neutral e proteggono le riserve di petrolio in calo, dato lo stato attuale della tecnologia, un ampio spostamento nei consumi dai materiali convenzionali a quelli a base biologica potrebbe essere una cattiva notizia per l’ambiente. Dopotutto, le materie prime a base vegetale vengono prodotte sul terreno e l’espansione agricola non regolamentata spesso porta alla conversione di foreste naturali, come quelle tropicali. Questo mette a repentaglio gli sforzi di mitigazione dei cambiamenti climatici, poiché le foreste stoccano molto più carbonio rispetto, ad esempio, alle piantagioni di mais o canna da zucchero”.

Come appare chiaro la progettazione e la realizzazione di molte politiche ambientali ha conseguenze e ricadute lontano da dove vengono prese queste decisioni. Per i ricercatori dell’Università di Bonn “Mentre la decisione di sostituire i combustibili fossili con materie prime biogeniche ha un effetto positivo immediato sul bilancio delle emissioni di carbonio tedesco, questo significa anche che la Germania deve importare più biomassa, determinando potenzialmente la deforestazione in regioni come il Sud America e il Sud-est asiatico. Queste dinamiche hanno aumentato in modo misurabile l’impronta ecologica che l’Unione europea genera attraverso le sue importazioni da altri Paesi”.  Se poi consideriamo che questi costi ecologici di solito emergono in Paesi con una legislazione ambientale debole è facile capire come un vantaggio netto di una politica ambientale locale supportata dalle migliori intenzioni, possa diventare un costo netto a livello globale. Secondo il professor Börner occorrono linee guida di sostenibilità vincolanti negli accordi internazionali: “Dobbiamo discutere di dove sia efficiente produrre determinati prodotti, sia dal punto di vista economico che ecologico e soprattutto a livello globale. Se questo significa che alcune regioni ci perdono economicamente, dobbiamo pensare a meccanismi di compensazione adeguati. Da questo punto di vista, l’attuale tendenza verso accordi bilaterali non è stata utile. Per gestire gli impatti globali delle politiche locali, gli accordi ambientali e commerciali internazionali devono coinvolgere quante più parti possibili”.

Un suggerimento utile per i politici e  gli scienziati che si occupano di clima potrebbe essere quello di non dimenticarsi di ascoltare le prime vittime del cambiamento climatico e di alcune scellerate scelte “ecologiche”, cioè i popoli indigeni. Il coinvolgimento nella ricerca scientifica dei popoli indigeni non è di per se una novità, ma è un indirizzo che va potenziato. La Nuova Zelanda, per esempio, vanta già ricerche esemplari nel campo del clima che hanno tenuto conto delle conoscenze e delle visioni delle popolazioni indigene. Il programma di ricerca neozelandese “Visione Matauranga”, finanziato da importanti fondazioni, vede, infatti, la partecipazione dei Maori, che utilizzano la loro ancestrale conoscenza per individuare soluzioni concrete e applicabili per permettere alle persone di adattare il proprio stile di vita ai cambiamenti ormai in corso. Un altro esempio virtuoso arriva dal convegno internazionale dei Giovani ricercatori delle regioni polari, tenutosi lo scorso anno in California, dove diversi scienziati europei, statunitensi e giapponesi hanno specificamente chiesto di poter collaborare nelle loro ricerche scientifiche con i rappresentanti indigeni e di poter tenere conto delle loro conoscenze. Che siano i primi segnali di un cambio di paradigma? 

Alessandro Graziadei

Sono Alessandro, dal 1975 "sto" e "vado" come molti, ma attualmente "sto". Pubblicista, iscritto all'Ordine dei giornalisti dal 2009 e caporedattore per il portale Unimondo.org dal 2010, per anni andavo da Trento a Bologna, pendolare universitario, fino ad una laurea in storia contemporanea e da Trento a Rovereto, sempre a/r, dove imparavo la teoria della cooperazione allo sviluppo e della comunicazione con i corsi dell'Università della Pace e dei Popoli. Recidivo replicavo con un diploma in comunicazione e sviluppo del VIS tra Trento e Roma. In mezzo qualche esperienza di cooperazione internazionale e numerosi voli in America Latina. Ora a malincuore stanziale faccio viaggiare la mente aspettando le ferie per far muovere il resto di me. Sempre in lotta con la mia impronta ecologica, se posso vado a piedi (preferibilmente di corsa), vesto Patagonia, ”non mangio niente che abbia dei genitori", leggo e scrivo come molti soprattutto di ambiente, animali, diritti, doveri e “presunte sostenibilità”. Una mattina di maggio del 2015 mi hanno consegnato il premio giornalistico nazionale della Federazione Italiana Associazioni Donatori di Sangue “Isabella Sturvi” finalizzato alla promozione del giornalismo sociale.

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