Equo: Ctm, dopo Nestlè divisione sul modello

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Lettera aperta sull'inclusione delle grandi compagnie transnazionali nel settore del fair trade

Il presente documento è per condividere alcune considerazioni in merito all'inclusione di grandi compagnie transnazionali (c.d. TNC) nel circuito del commercio equo e solidale (fair trade). La riflessione ovviamente prende la mossa dalla recente "vicenda Nestlè" (il lancio di una linea certificata di caffè equo e solidale nel Regno Unito), ampiamente ripresa dalla stampa nazionale e internazionale, che sta scatenando in tutto il mondo una spontanea reazione di protesta da parte di organizzazioni di commercio equo e solidale, volontari, consumatori consapevoli, attori della società civile.

Questa protesta nella maggior parte dei casi si focalizza sul fatto che Nestlè è al centro di un'azione di boicottaggio a livello internazionale. Anche l'organismo che gestisce il marchio di certificazione in Italia (il consorzio Transfair-Fairtrade) ha utilizzato questo argomento in una nota ufficiale con la quale ha "preso le distanze" dalla decisione degli omologhi inglesi.

Pur condividendo appieno questa preoccupazione, riteniamo necessario chiarire che il problema non si riduce a un giudizio sul profilo etico della TNC di turno (oggi Nestlè), ma investe lo stesso concetto di commercio equo e solidale, ovvero il modello economico sotteso a questa definizione.

Nella nostra visione, il fair trade consiste in una partnership economica tra comunità di piccoli produttori svantaggiati del Sud del Mondo e una rete di organizzazioni del Nord che fanno del commercio equo il centro della loro missione.

Organizzazioni che si occupano di sviluppare un mercato per le merci dei produttori partner, di sostenere percorsi di auto-sviluppo che consentano il recupero di condizioni di vita e lavoro dignitose, di sensibilizzare cittadini e istituzioni perché vengano corretti i meccanismi economici che generano marginalità e sottosviluppo. Meccanismi economici che, in molti casi, sono generati dalla pratica commerciale delle maggiori TNC, che controllando la domanda in interi settori possono imporre condizioni produttive insostenibili (si pensi al mercato dei principali prodotti agroalimentari coloniali: caffè, cacao, banane).

Le organizzazioni con caratteristiche sopra citate - internazionalmente note come Fair Trade Organisations, c.d. FTO - hanno costruito negli anni una vera e propria filiera alternativa, e dimostrato la capacità di risultare efficaci anche in termini commerciali, riuscendo a coinvolgere milioni di consumatori consapevoli e raggiungendo dimensioni rilevanti anche in termini economici (basti pensare che da soli, i prodotti della nostra organizzazione hanno raggiunto un valore al dettaglio di oltre 50 milioni di euro, corrispondenti al 25% del mercato britannico, secondo i dati pubblicati da Repubblica). Un successo ottenuto anche attraverso la collaborazione con operatori della distribuzione tradizionale, ma sempre all'interno di un rapporto che vede il protagonismo delle FTO come attori della catena commerciale e garanti del mantenimento dell'opzione preferenziale verso i piccoli produttori.

Questa visione già di per sé configura un modello radicalmente diverso rispetto a quello secondo cui il fair trade diventa una semplice caratteristica di uno specifico prodotto, a prescindere dalla natura delle organizzazioni che gestiscono la relazione con il produttore. Riteniamo che un tale modello abbia insito in sé il rischio di impoverire il contenuto stesso del concetto di equo e solidale, riducendolo a quello ? necessario, ma non sufficiente - di prodotto "pagato il giusto", venendo a perdere ogni significato di sostegno alle istanze di giustizia economica promosse dalle FTO.

Quando poi è una TNC come Nestlè (ma lo stesso varrebbe per colossi come Chiquita, Kraft, Sara Lee, Procter&Gamble) a lanciare una linea di prodotto fair trade la contraddizione tra i due modelli sboccia drammaticamente. Se una impresa di questo tipo non opera una sostanziale revisione delle proprie pratiche commerciali nei mercati che controlla, l'operazione si riduce a una mera azione tattica per guadagnare quote di mercato, "pescando" nella nicchia dei consumatori sensibili.

Riteniamo che la vicenda Nestlè debba prima di tutto servire a tutto il movimento del commercio equo, a livello globale (FTO, attivisti ma soprattutto consumatori sensibili), per interrogarsi ulteriormente in merito alla reale possibilità di fare convivere entrambi i modelli all'interno dello stesso concetto. Allo stesso tempo, prendiamo spunto dalla vicenda per ribadire nel seguito le nostre convinzioni in merito all'inclusione delle TNC nel settore.

Riteniamo che a nessuna delle TNC con posizione dominante dovrebbe essere concessa la possibilità di realizzare prodotti fair trade senza avere prima dimostrato di avere applicato in modo strutturale misure di responsabilità sociale di impresa, a partire dal rispetto delle convenzioni ILO e il pagamento di salari adeguati, in tutta la loro produzione.

Inoltre, riteniamo che sarebbe necessario permettere a una TNC con posizione dominante di pubblicizzare il proprio coinvolgimento nel fair trade solo dopo essersi compromessa nell'acquistare una parte significativa della propria produzione da piccoli produttori marginalizzati.

Vi preghiamo di credere che queste nostre considerazioni non partono dal timore che le FTO si possano trovare ad affrontare la concorrenza di TNC nel sostenere la proposta di commercio equo. Le straordinarie capacità di investimento in comunicazione delle TNC otterrebbero sicuramente l'effetto di diffondere ulteriormente la conoscenza del fair trade, e dunque allargherebbero notevolmente le possibilità di risultato commerciale di tutti. Ma verrebbe a diluirsi quel portato di valori, credibilità e innovazione nella gestione delle relazioni commerciali che hanno costituito il carattere distintivo del movimento del commercio equo nei suoi cinquant'anni di vita.

Alla luce di tutte queste considerazioni, chiediamo:
- Alle organizzazioni di rappresentanza delle FTO (e prima di tutto IFAT) di attivarsi per sollecitare dagli organismi associati in FLO una revisione dell'attuale strategia di allargamento della certificazione a TNC e grandi piantagioni;

- Agli organismi che gestiscono il marchio di certificazione (e prima di tutto al loro coordinamento FLO) che si interroghino in merito alle conseguenze di procedere con decisioni fondamentali - destinate a modificare in maniera irreversibile il significato stesso di fair trade ? senza ricercare il confronto e il consenso all'interno del movimento delle FTO, di fatto ponendosi in posizione alternativa ad esso;

- - Ai consumatori che sostengono l'equo e solidale, di sostenere le iniziative delle FTO e di considerare nella propria scelta di acquisto anche la natura dell'organizzazione che importa e realizza i prodotti. il Consiglio di Amministrazione del Consorzio Ctm altromercato Soc. Coop.

Approfondimenti: Caffè Nestlè etico, il forte no dall'Italia, Caffè corretto Nestlè, giù le mani!

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