Il mercato delle armi e un Trattato che non arriva

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In questi giorni la questione del disarmo è passata in sordina. Non la mercificazione delle armi, portata alla ribalta dal caso Finmeccanica e le presunte mazzette per forniture di armamenti ed elicotteri allo Stato di Panama, che vede indagato anche l’ex Ministro Scajola. Le armi rappresentano uno dei primi mercati al mondo, insieme a quello della droga e degli esseri umani. Un mercato che da anni attende una regolamentazione, un Trattato, che sembrava essere prossimo, ma che a luglio ha visto una battuta d’arresto, che scotta ancora. Veti incrociati su armi pesanti, armi leggere, munizioni e quant’altro, hanno bloccato un accordo dei Governi, che avrebbe dovuto regolamentare il commercio. Un esempio di “principio” che il trattato avrebbe dovuto contenere: le armi non possono essere esportate nei Paesi con una forte instabilità. Dove esportarle - direbbero i produttori – se non dove si fa la guerra o si è pronti per farla? Ripercorriamo dinamiche, rotte, intrecci e volumi di questo mercato che gli economisti definirebbero “costo opportunità”, in fase di crisi finanziaria.

Il mercato. Massima allerta degli Stati alla corsa agli armamenti e impegno degli stessi per porvi un freno e informare l’opinione pubblica sui temi del disarmo. Erano questi i punti essenziali del documento da cui nasceva la “Settimana del disarmo”, nella Risoluzione S-10/2 del 1978. A 34 anni dalla sua istituzione, il mercato delle armi non conosce crisi. La stima per il 2011 delle spese militari è stata di 1.735 miliardi di dollari, quasi due volte le spese delle Nazioni Unite, che hanno rilasciato il dato. Le prime cento industrie belliche fatturano oltre 400 miliardi di dollari all’anno, riporta il dato Francesco Vignarca coordinatore della Rete Italiana Disarmo e autore di Armi, Affari di Stato. Secondo i dati dello Stockholm international peace institute, nel 2010 l’industria bellica, nonostante la crisi, ha ottenuto un incremento del 1%, rispetto all’anno precedente. Nell’export, davanti a tutte, le aziende americane, seguite da Cina, Russia, Regno Unito, Francia.

L’esigenza di un trattato. Le Nazioni in via di sviluppo rappresentano le destinazioni principali per i fornitori di armi. L’84% degli accordi mondiali sono conclusi in quei Paesi, riporta il rapporto “Conventional Arms Transfers to Developing. Nations”, 2004-2011, presentato al Congresso Usa (qui in . pdf). In un comunicato datato 30 luglio 2012, all’indomani del “mancato trattato”, Amnesty e Oxfam dichiaravano: le armi finiscono nelle mani di signori della guerra che continuano a colpire le popolazioni civili, come in Afghanistan, Colombia, Repubblica democratica del Congo e Somalia. Qui risiede il nodo. Il Trattato, era ed è la speranza che, a livello nazionale ed internazionale, non vi siano trasferimenti in Paesi in cui sia evidente il rischio per i diritti umani. Un altro dato significativo: a causa di ferite da arma da fuoco muore in media una persona al minuto, mentre sono migliaia i mutilati e i feriti ogni giorno. Altra necessità, che dovrà contenere un Trattato, è rendere pubbliche tutte le autorizzazioni e i trasferimenti da parte dei Governi.

 

Gli ostacoli al trattato. Ban Ki Moon, Segretario Generale Onu, in una lettera aperta ai quotidiani nazionali, commentava così le quattro settimane di trattative sul disarmo, conclusesi il 27 luglio senza un trattato: “opposti interessi in gioco hanno impedito l’accordo su un trattato di cui si sente invece bisogno”. Amnesty International, Oxfam International e la Rete internazionale d’azione sulle armi leggere, affermavano “I negoziati di New York sono stati la cartina di tornasole della volontà dei governi. Una manciata di potenze è venuta meno ai suoi impegni, privilegiando i suoi interessi politici”. Francesco Vignarca, ci spiega alcune dinamiche del dibattito, in un articolo pubblicato su AltraEconomia, nel mese di ottobre: gli Usa sono stati spinti a tener fuori dagli accordi le munizioni, 50 senatori avevano tuonato contro ogni tipo di accordo; l’Italia, in prima linea nella firma per un trattato contro l’export nei Paesi a rischio, aveva fatto pressione per tener fuori le armi leggere ad uso civile, con inclusione delle sole pistole e fucili. Ricordiamo che l’Italia in questo settore è al secondo posto tra gli esportatori mondiali. Alla fine le trattative di luglio hanno prodotto una dichiarazione congiunta sottoscritta da oltre 90 paesi, che s’impegnano a ottenere quel risultato nel più breve tempo possibile.

L’Italia. L’Italia è seconda al mondo nell’export di armi leggere, un settore in grande spolvero, che al di là della crisi, conta oggi il doppio di fatturato rispetto al 2006; infatti, secondo il rapporto Small Arms Survey 2012 ,«il valore annuo dei trasferimenti legali di armi leggere e di piccolo calibro, compresi accessori, ricambi e munizioni supera gli 8,5 miliardi di dollari». Intanto c’è una forte mobilitazione nazionale contro gli F35 caccia bombardiere che il nostro Paese produrrà e poi acquisterà. Notizia di pochi giorni fa, rilanciata da Il Sole 24 Ore, annuncia che “gli F-35 ci costeranno più del previsto: 127 milioni di dollari per ogni aereo contro gli 80 annunciati”. Contro questa operazione si sono espressi oltre 77.000 cittadini, 660 associazioni e più di 60 Enti Locali (tra Regioni, Province e Comuni), che hanno risposto all’appello della campagna “Taglia le ali alle armi!”, di Rete Italiana per il Disarmo, Sbilanciamoci! e Tavola della Pace. Le critiche sono mosse alla mancata chiarezza dei costi da parte del Governo; all’inopportunità di fare tali investimenti, sempre, ma soprattutto in un momento di crisi come questo.

Chiudiamo con le parole di Ban Ki Moon, nella lettera citata prima dal titolo “Troppe armi e poche risorse per la pace”. “Forse, soprattutto, dobbiamo occuparci dei bisogni umani fondamentali e conseguire gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio. Senza sviluppo non c’è pace. Senza disarmo, non c’è sicurezza.

Fabio Bellumore

Fonte: articolo21.org

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