Il Medio Oriente sempre più armato. Complice l’Europa

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Giorgio Beretta, collaboratore di Unimondo e analista dell’Osservatorio sulle armi leggere (Opal) di Brescia: "All’esigenza di ridurre il divario nella bilancia dei pagamenti con i Paesi produttori di petrolio, si è aggiunta la necessità, anche per l’Italia, di trovare nuovi acquirenti di sistemi militari per cercare di sostenere le proprie industrie del settore a fronte di una riduzione degli stanziamenti nazionali per la Difesa"

La “XV Relazione annuale sul controllo delle esportazioni di tecnologia e attrezzature militari”, resa pubblica a fine gennaio 2014 che Unimondo ha presentato in anteprima , rivela che nel 2012 i Paesi dell’Ue hanno autorizzato esportazioni di armi e sistemi militari per un valore totale di 39,9 miliardi di euro: un incremento del 6,2% rispetto al 2011. Spicca in particolare l’ammontare delle autorizzazioni all’esportazione di armamenti verso il Medio Oriente che raggiunge la cifra record di 9,7 miliardi di euro con un incremento del 22% rispetto al 2011. Considerata la tradizionale instabilità della regione, il dato è preoccupante. L’incremento di autorizzazioni verso questa area, inoltre, è avvenuto nonostante le rivolte popolari della “Primavera araba”. Nel 2012 le licenze di esportazioni al Medio Oriente di “armi leggere” hanno sfiorato i 265 milioni di euro, quelle di “sistemi per la direzione del tiro” l’1,2 miliardi di euro e di “munizionamento” i 448 milioni di euro. Ne abbiamo parlato con Giorgio Beretta, collaboratore di Unimondo e analista dell’Osservatorio sulle armi leggere (OPAL) di Brescia.

I ripetuti appelli di tanti leader religiosi, in primis Papa Francesco, a non fornire armi a Paesi in guerra sono inascoltati. Quali sono le ragioni di questo incremento della vendita di armi?

“Le esportazioni di armi che il Rapporto Ue documenta sono quelle del 2012, cioè ormai di due anni fa e già questo rende l’idea di quanto sia blando il controllo sull’export europeo di armi. Ancor più grave, però, è il fatto che lo scorso giugno, su pressione del Regno Unito e della Francia, i Paesi dell’Ue abbiano di fatto allentato le misure di embargo di armi verso la Siria. Il motivo, in una situazione confusa come quella siriana, è paradossale: s’intenderebbe, infatti, sostenere il diritto all’autodifesa della popolazione contro il regime di Bashar al Assad”.

I dati dicono che i maggiori acquirenti sono Arabia Saudita, Oman e Emirati Arabi Uniti che si distinguono anche per limitazioni delle libertà democratiche. Armi sono state vendute anche a Iraq e Israele. Non dovrebbero esserci criteri di selezione, anche politici, per la vendita di armi a tali Paesi?

“Di fatto tutti i criteri di selezione sono in un certo senso politici: le norme europee lasciano, infatti, un ampio margine di manovra ai governi. Ma da alcuni anni più che le ragioni di tipo politico stanno prendendo il sopravvento motivi economici e industriali: alla tradizionale esigenza di ridurre il divario nella bilancia dei pagamenti con i Paesi produttori di petrolio, si è aggiunta la necessità per diversi Paesi europei, tra cui l’Italia, di trovare nuovi acquirenti di sistemi militari per cercare di sostenere le proprie industrie del settore a fronte di una riduzione degli stanziamenti nazionali per la Difesa. La crisi economica sta accentuando questa tendenza tanto che, come nota la stessa Ue, tutte le maggiori industrie militari con sede in Europa oggi si focalizzano sui mercati d’esportazione e sta trasformando alcuni ministri della Difesa in espliciti promotori delle esportazioni di sistemi militari”.

Sistemi militari sono stati forniti anche a Paesi sottoposti a embargo di armi da parte dell’Ue, come il Libano, l’Iraq e la Siria...

“Vanno distinte chiaramente due tipologie di esportazioni verso i Paesi sotto embargo. Da un lato, ci sono i sistemi di protezione e i veicoli blindati destinati alle rappresentanze dell’Onu presenti in questi Paesi che sono segnalati nel Rapporto. Dall’altro, e questo è preoccupante, vi sono le forniture di sistemi militari verso destinatari sconosciuti come nel caso delle ‘armi leggere’ inviate dall’Italia in Libano o degli imprecisati ‘aeromobili’ venduti sempre dall’Italia alla Libia”.

Il Rapporto fornisce cifre dell’export ufficiale di armi verso i Governi mediorientali ma non dice nulla delle armi fornite a forze ribelli e di opposizione che li combattono come accade in Siria. È possibile quantificare questo secondo aspetto della fornitura di armi?

“Al momento è impossibile. Innanzitutto non è ancora chiaro se, nonostante l’allentamento dell’embargo, qualche Paese dell’Ue abbia già iniziato a fornire di armi le forze di opposizione siriane. È molto più probabile, invece, che taluni sistemi militari siano stati inviati a Paesi limitrofi - come la Turchia - o che sia stato in qualche modo permesso l’invio di armi ad alcune fazioni della Coalizione nazionale siriana o il Free Syrian Army da parte di nazioni come l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi e il Qatar”.

A maggio si terranno le elezioni europee: quanto pesa l’assenza di una vera politica estera di sicurezza comune concertata tra i Paesi Ue che possa disciplinare anche un settore strategico come quello della vendita di armi?

“Pesa a tre diversi livelli: innanzitutto a livello politico per la mancata autorevolezza dell’Ue nello scenario internazionale. In secondo luogo, a livello economico e di efficienza perché se non si definisce una politica di difesa comune le spese militari continueranno a essere disperse per sostenere 27 forze armate nazionali sovradimensionate e con funzioni che si sovrappongono. Ma soprattutto pesa sulla nostra stessa sicurezza: cercare di difendere le proprie industrie militari nazionali puntando sulle esportazioni finisce per permettere esportazioni di armi anche a Paesi a rischio e col sostenere regimi autoritari con tutti i problemi che ne conseguono. Come si è visto nel caso della Libia e della Siria, questi Paesi diventano focolai di rivolte che si espandono nella regione e minacciano la nostra stessa sicurezza”.

Daniele Rocchi

Fonte: © Agenzia SIR

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