Nigeria: attacco a uffici Eni e il peso del debito

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A Port Harcourt in Nigeria, dopo l'attacco agli uffici dell'Eni-Agip di martedì 24 gennaio- che ha provocato nove morti di cui otto poliziotti - rimangono in fibrillazione i sindacati dei lavoratori delle compagnie petrolifere che chiedono al governo nigeriano maggiore sicurezza. Tra le conseguenze della situazione c'è anche un calo del 10% nella produzione in Nigeria che è il primo paese esportatore di petrolio in Africa e il quinto da cui gli Stati Uniti importano. E proprio gli Stati Uniti nei giorni scorsi avevano dichiarato che in Nigeria non c'è più sicurezza e sconsigliano i viaggi in quel paese e stanno cercando di mettere al sicuro i cittadini americani che, per lavoro o altri motivi, sono attualmente in Nigeria.

La compagnia petrolifera italiana Eni ha temporaneamente evacuato dalla base operativa il proprio staff e i suoi contrattisti. Non è chiaro se l'attacco fosse finalizzato ad un rapina nel servizio tesoreria dell'azienda che è interno, ma l'attacco è avvenuto prima che un furgone di deposito carico di denaro arrivasse all'ufficio. Sembra che una e mail rivendichi la paternità degli attacchi. Si tratterebbe di un gruppo di militanti nigeriani che scrivono "come politica le nostre unità sono predisposte alle rapine armate" ma non c'è alcun riferimento ad assalti a sfondo politico. Una lettura dei fatti che viene supportata anche da una nota diffusa in giornata dal 'Movimento per l'emancipazione del Delta del Niger' (Mend, la nuova formazione armata che ha rivendicato il sequestro dei 4 dipendenti internazionali Shell) che pur "rallegrandosi" della rapina non rivendica direttamente l'attacco.

"Un'incredibile quantità di petrolio viene esportata e sfruttata da multinazionali straniere senza che gli abitanti di queste terre possano beneficiarne in alcun modo". Lo dice all'agenzia Misna monsignor Festus Okafoa, vicario della diocesi di Port Harcourt, la 'cassaforte' dei circa 2,5 milioni di barili di petrolio nigeriano esportati ogni giorno. "Pur non condividendo le loro azioni, possiamo comprendere i motivi delle rivendicazioni" aggiunge Okafoa, ex-docente di filosofia nella locale università. "Quello che accade è oggettivamente un'ingiustizia sociale: le risorse naturali vengono sfruttate dall'esterno e la popolazione locale vive in una situazione di assoluta miseria, senza strade, ospedali o infrastrutture e, soprattutto, senza lavoro". Alla diffusa povertà si aggiungono i "danni" provocati dalle multinazionali del petrolio: "L'inquinamento dei terreni e delle falde acquifere ha immediate ripercussioni sulla vita di tutti i giorni, soprattutto a carico delle famiglie più povere che non hanno altre fonti di approvvigionamento dell'acqua" osserva ancora monsignor Okafoa.

Intanto diciotto membri del Congresso degli Usa hanno ufficialmente chiesto al Presidente George W. Bush di condonare la quota americana dei 12,4 miliardi di dollari che la Nigeria dovrebbe pagare al Club di Parigi dei Paesi Creditori, in base alla decisione presa lo scorso ottobre. I fondi che la Nigeria non verserebbe agli Stati Uniti andrebbero a favore di programmi sull'istruzione e sanità.. Dei 12,4 miliardi di debiti che la Nigeria dovrebbe pagare, tuttavia, la quota più consistente riguarda altri Paesi, più specificamente Regno Unito, Germania, Francia e Italia (il 7% dell'importo). Lo scorso maggio tre autorevoli politici nigeriani sono stati in visita a Roma per chiedere di alleviare il peso del debito. I politici hanno richiamato l'attenzione sulle condizioni dei 134 milioni di nigeriani che vivono ad un livello di povertà tra i più bassi del pianeta. La cancellazione del debito andrebbe a favore dei Paesi occidentali, dal momento che la Nigeria beneficerebbe di una crescita economica più veloce e aumenterebbero così le importazioni di beni e tecnologie prodotti in Occidente. [AT]

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