L’Italia è alle strette: diamo spazio alle competenze

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Foto: Unsplash.com

La congiuntura sanitaria, economica e sociale nella quale riversa l’Italia di oggi è sull’orlo del baratro. Se fino a poco fa ci abbiamo scherzato sopra, ci abbiamo twittato, strimpellato e cantato, via via ci siamo sempre più spaventati e sempre più commossi, ora credo che sia decisamente tempo di dare spazio alla verità, alle competenze. Di fronte a una tragedia epocale, un virus pericolosissimo da estirpare, è giunto il momento di metabolizzare la paura che ci tiene paralizzati, e diffondere un messaggio, chiaro e univoco: salviamo il nostro Paese.

Come? Prendendo atto delle difficoltà nel prendere decisioni mirate e comuni di un’Italia divisa, ed evidentemente incapace di agire insieme a livello nazionale e locale. Certo, le colpe sono ben spartite tra tutta la cittadinanza, non ultime quelle di coloro che continuavano e continuano a uscire di casa sbeffeggiandosi dei divieti. Il governo, con tanti piccoli contentini, ancora non riesce a dare risposte di medio periodo alla cittadinanza. Si dovrebbe poi favorire un’informazione più neutrale e scientifica: togliere il microfono alle bande di cialtroni che vengono interpellati sui canali televisivi e disintossicarsi dagli interventi dei presunti esperti che impazzano sui social e non solo. Il solito teatrino caotico italiano, che altro non fa che generare ancor più panico, invece di essere propositivo. Perché ad oggi non si stanno ancora realizzando campionamenti a livello nazionale per avere una dimensione effettiva del contagio? Eppure ce ne sarebbe un gran bisogno. Una ricerca dell’Imperial College di Londra, tra i migliori centri di studio di epidemiologia al mondo, stima che le infezioni in Italia al 28 di marzo corrispondano al 9,8% della popolazione, cioè 5,9 milioni di casi. Un numero esagerato, forse, ma ciò che è vero è che i positivi sono molti, ma molti di più: capite perché i numeri che si ascoltano in tv (superata da poco la soglia dei 100 mila casi) non hanno molto significato? 

È una politica che, colta alla sprovvista, arranca e non ha il coraggio di affidare la guida del paese a chi avrebbe maggiori competenze o a un governo di unità nazionale, viste le previsioni drammatiche che ci aspettano nei prossimi mesi. Sono questi, a maggior ragione, i tempi draconiani nei quali i politici vengono spogliati e denudati delle loro arroganti sicurezze, della loro armatura artificiosa, del loro pubblico, dei loro applausi a comando, e si mostrano per quello che sono, persone né più né meno esperte di noi, nell’affrontare la crisi in atto. Ciò nonostante, ci ostiniamo ad ascoltarli, invece di sostenere un governo che abbia più strumenti (e consenso) per tirarci fuori dall’uragano.

Guardiamo all’esempio tedesco (che certamente non brilla su tanti altri aspetti). La Germania è, su scala mondiale, il paese con il più basso rapporto tra il numero di persone morte per coronavirus e il numero di persone infettate. Ad oggi, 31 marzo, si parla di “solo” 682 deceduti su un universo di 67.051 positivi, vale a dire un rapporto dell’1%. Fate attenzione, perché l’equivoco iniziale è già stato appurato da un pezzo: in Germania contano i morti “per coronavirus” tanto quanto li si conta in Italia, cioè non è vero che escludono coloro a cui il virus ha dato solo un colpo di grazia. Lo ha voluto chiarire l´Istituto Robert Koch, responsabile del controllo delle malattie infettive in Germania, il quale utilizza esattamente lo stesso meccanismo di conteggio dell' Istituto Superiore di Sanità nostrano. Non attacchiamoci a questi subdoli stratagemmi che sanno tanto di sovranismo e rancore gratuito. Un problema serio va affrontato come tale, e i tedeschi su questo hanno da insegnare.

Come si stanno raggiungendo questi risultati? Partendo dal presupposto che, a differenza dell’Italia, la Germania ha goduto di decenni di buon governo che ha permesso di trovarsi più attrezzati e reattivi su scala nazionale. Paradossalmente il paese ha imposto restrizioni su scala nazionale solo a partire dal 22 di marzo, giorno nel quale la stessa Angela Merkel ha dichiarato di entrare in quarantena assieme al suo staff. Tuttavia, è un paese che si è mosso fin da subito adattando il proprio sistema sanitario, un’eccellenza mondiale, all’arrivo del virus, vantando tra il resto 30 mila posti di rianimazione, in confronto ai 5 mila italiani. Hanno poi messo al riparo le persone più anziane e vulnerabili, ed hanno iniziato a testare a tappeto: in media realizzano mezzo milione di tamponi a settimana. Ma queste sono notizie non contemplate dal panorama informativo italiano.

Vi è poi da considerare un fattore demografico: l'età media dei malati di Covid-19 in Germania è di 47 anni, in Italia di 64 anni (dati di tre giorni fa). Una distanza abissale che in moltissimi casi fa la differenza tra la morte e la guarigione. Inoltre, si rivela più complicato bloccare o rallentare la diffusione del virus quando le famiglie italiane, più frequentemente di altre, accolgono negli stessi edifici nonni e nipotini, e hanno più contatti, mentre in Germania la composizione familiare è più distribuita e indipendente. Dunque l’unità tra le generazioni, oltre alla vocazione sociale ed aggregativa del popolo italiano non ha giovato. Questo per cercare di fare chiarezza sulla fame di cospirazione di tanti italiani, che di fatto ci sta inabissando. Angela Merkel è poi la stessa leader che fu attaccata a destra e a manca quando sostenne che circa il 60-70% della popolazione sarà contagiato dal virus. La premessa è che l’attuale indice di mortalità non sia il reale, ma che col tempo sarà raffinato e via via sempre più diluito mano a mano che si conosca l’effettiva portata dei positivi a livello nazionale. Questo è un approccio evidentemente più scientifico e lungimirante, di un paese che sta già pensando ad un Corona-Exit

Dal punto di vista economico poi la ricetta non è semplice, ma l’unica via praticabile sembra essere quello di aumentare il debito pubblico a sostegno dell’economia reale, lo ha detto a caratteri cubitali Mario Draghi pochi giorni fa, e mi sorprende che ci siano ancora dei dubbi in merito. La strategia di governo, che viene inanellando, decreto dopo decreto cifre disparate, che sembrano fatte apposta per creare confusione, non è stata un’arma efficace fin qui. L’emergenza nella quale siamo sommersi minaccia la sopravvivenza delle imprese, che non potendo vendere non riusciranno a pagare debiti e salari, rischiando infine il fallimento. Nel momento in cui l’emergenza dovesse finire, gli economisti avvertono che ricostruire un’impresa fallita da diversi mesi è difficilissimo, e comporterebbe una fase di stagnazione economico-sociale del paese che potrebbe prolungarsi per anni. E quelli sono problemi altrettanto gravi e altrettanto reali. Il dipendente di una microimpresa, dopo vari mesi di stop senza entrate, arriva veramente a soffrire la fame. Una miseria, che più in là, son sicuro, darà adito all’approfittarsi del primo politico autoritario di turno. Vedi il caso ungherese.

Per questo, la crisi ci impone di salvaguardare la capacità installata ed evitare la chiusura delle aziende, e quindi la necessità di fare debito, per la Banca Centrale Europea (BCE) di stampare moneta e, mediante uno sforzo collettivo, sopperire al collasso del debito privato e, mediante l’intermediazione bancaria, fare gli investimenti indispensabili per mantenere in vita il tessuto produttivo, economico del paese. In fin dei conti si tratterebbe semplicemente di un’accelerazione dell’indebitamento selvaggio al quale siamo stati testimoni negli ultimi decenni, e, almeno per una volta, sarebbe per un fine più che giustificato. Purtroppo l’Italia, grazie al trambusto politico degli ultimi anni, non si è mai preparata all’avvento di una qualche crisi, a differenza di altri paesi evidentemente meno sprovveduti: quando si vive sul filo dell’abisso basta un soffio di vento per caderci. Peggio ancora se arriva una tempesta di queste proporzioni. 

Non si venga a dire che l’Europa non abbia espresso la sua solidarietà, nonostante gli scetticismi, leciti, sulla capacità di gestione del debito dell’Italia. La BCE è pronta a stanziare 750 miliardi di euro per comprare debito spagnolo e italiano e conservarne basso il costo. Tutti gli organi dell’Unione Europea hanno dato autorizzazione generale alle misure di incremento significativo del debito degli stati membri per dare stimolo a livello nazionale, oltre a sospendere momentaneamente i famosi vincoli sul deficit di bilancio. Vi sono stati poi sostegni tangibili della Commissione Europea e di paesi, come la stessa Germania, che hanno accolto malati italiani e hanno donato dispositivi medici (tra mascherine, respiratori e camici) agli ospedali della nostra penisola. Peccato che questi aiuti siano stati ignorati dalla propaganda. 

C’è anche da capire che l’Italia è stata colpita prima di tutti, in una condizione già di per sé indebolita, e adesso sta chiedendo aiuti con insistenza, in quella che però sarebbe una prospettiva di breve termine. E lo sta facendo invocando un’emissione massiva di eurobond, o dei cosiddetti “coronabond”, uno strumento di enorme responsabilità, che in un batter d’occhio catapulterebbe tutti gli Stati Europei in una scivolosa condizione di para-unione fiscale, dove i contribuenti di paesi sani dovrebbero pagare il prezzo di coloro che hanno vissuto a lungo al di là delle loro possibilità, come l’Italia. Sebbene sia vero che l’Europa ci abbia messo il suo tempo a reagire, è altresì comprensibile che i paesi del Nord abbiano un approccio più cauto in tal senso.

Ciò nonostante, oltre a celebrare, giustamente, i contingenti arrivati da Russia, Cina, Cuba, e addirittura Albania, rendiamoci conto che l’Europa ci sta già aiutando concretamente, con umanità, solidarietà ed efficienza, e questa volta cerchiamo di non dimenticarcelo nel dibattito futuro. Per il bene comune che siamo chiamati a difendere.

Marco Grisenti

Laureato in Economia e Analisi Finanziaria, dal 2014 lavoro nel settore della finanza sostenibile con un occhio di riguardo per l'America Latina, che mi ha accolto per tanti anni. Ho collaborato con ONG attive nella microfinanza e nell’imprenditorialità sociale, ho spaziato in vari ruoli all'interno di società di consulenza e banche etiche, fino ad approdare a fondi d'investimento specializzati nell’impact investing. In una costante ricerca di risposte e soluzioni ai tanti problemi che affliggono il Sud del mondo, e non solo. Il viaggio - il partire senza sapere quando si torna, e verso quale nuova "casa" - è stato il fedele complice di anni tanto spensierati quanto impegnati, che mi hanno permesso di abbattere barriere fuori e dentro di me, assaporare panorami, odori e melodie di luoghi altrimenti ancora lontani, appagare una curiositá senza fine. Credo in un mondo più sano, equilibrato ed inclusivo, dove si possa valorizzare il diverso. Per Unimondo cerco di trasmettere, senza filtri, la veritá e la sensibilità che incontro e assimilo sul mio sentiero.

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