Un odio che moltiplica le possibilità di una guerra totale. Il punto

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Immagine: Atlanteguerre.it

La conta è terribile. I morti civili a Gaza, dall’inizio dell’offensiva israeliana nell’ottobre 2023, sarebbero 34mila. I feriti sono 80mila. Numeri spaventosi, che disegnano il profilo esatto del sistematico massacro messo in moto dal governo israeliano. La reazione all’attacco di Hamas del 7 ottobre è stata durissima, mirata - lo ha dichiarato il premier Netanyahu - ad una “soluzione finale” per Gaza. L’annientamento dei palestinesi della Striscia si misura soprattutto nei 13.800 bambini uccisi ad oggi. Il dato è del Direttore esecutivo dell'UNICEF, Catherine Russell. “Un bambino viene ferito o muore ogni 10 minuti" ha scritto in una nota l'Agenzia delle Nazioni Unite per l’uguaglianza di genere e l'emancipazione delle donne. Le donne uccise dal 7 ottobre sono state più di 10.000: hanno lasciato 19.000 bambini orfani.

Nonostante le ormai costanti pressioni degli alleati, che chiedono una tregua duratura per consentire gli arrivi degli aiuti umanitari, il governo israeliano appare inflessibile. La pressione sui palestinesi si manifesta anche nella West Bank, in Cisgiordania, con i coloni israeliani di fatto all’assalto della terra palestinese. Le violenze, anche qui, sono quotidiane, protette dall’esercito israeliano. Netanyahu ha autorizzato nuovi insediamenti nel territorio dell’Autorità Palestinese, alimentando di fatto l’odio. Fabio Buccciarelli, fotoreporter che in Palestina sta realizzando servizi fotografici anche per l’Atlante delle Guerre e dei Conflitti del Mondo, spiega che l’odio dei palestinesi nei confronti di qualsiasi straniero è diventato palpabile, concreto. Ormai è come se percepissero nemico tutto ciò che arriva dall’Europa o dagli Stati Uniti.

Odio, quindi, questo il tratto del Vicino Oriente in queste settimane. Un odio che moltiplica le possibilità di una guerra totale. Nel Nord di Israele, hezbollah, alleato dell’Iran, bombarda dal Libano le postazioni israeliane. Il tutto, mentre il braccio di ferro fra Tel Aviv e Teheran continua, pericoloso. Dopo il bombardamento iraniano su Israele, voluto da Teheran come “risposta” all’attacco israeliano al consolato iraniano a Damasco, in Siria, Nethanyahu ha promesso ritorsioni. L’attacco iraniano è stato di fatto neutralizzato dagli israeliani, a giudizio di molti osservatori per due ragioni. La prima è la massiccia copertura antiaerea garantita da Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia, che sono intervenute direttamente. La seconda – e più importante – è la scelta iraniana di mettere in campo una risposta “simbolica”, più che militarmente concreta, offrendo a Israele la possibilità di difendersi. La prova sarebbe nella rapidità con cui Teheran ha spiegato al Mondo di “ritenere con questo attacco conclusa la vicenda”. 

Il governo Netanyahu la pensa diversamente ed ha annunciato una “risposta adeguata al momento giusto”. Minaccia che i vertici iraniani hanno preso sul serio, annunciando che “l’Iran potrebbe rivedere la sua dottrina nucleare di fronte alle minacce israeliane”. Ad oggi, il leader supremo iraniano, l’Ayatollah Ali Khamenei, ha sempre affermato che Teheran non ha mai perseguito la costruzione o l’uso di armi nucleari, cosa che la religione vieta. Una posizione che potrebbe essere rivista. 

La comunità internazionale, nel frattempo, balla attorno al tavolo. La Cina ha sostenuto la mozione che, all’Onu, chiedeva che la Palestina diventasse membro a pieno titolo delle Nazioni Unite. Lo ha detto il ministro degli Esteri Wang Yi, spiegando che “il conflitto israelo-palestinese ha provocato un disastro umanitario. Un cessate il fuoco incondizionato e un meccanismo di soccorso umanitario dovrebbero essere istituiti il prima possibile, per evitare un’ulteriore escalation della situazione”. La mozione non è passata, per il veto degli Stati Uniti, che assieme al Regno Unito hanno nel frattempo annunciato nuove sanzioni contro persone o enti iraniani.

Poco distante, nel mar Rosso, continuano gli attacchi degli houthi yemeniti alle navi mercantili. A proteggere la navigazione sono state inviate alcune missioni internazionale. Quella europea è “Aspides: secondo il contrammiraglio greco Vassilios Gryparis dovrebbe essere rinforzata. Ora sono quattro fregate a comporre la spedizione, provenienti da Grecia, Germania, Francia e Italia. Ad oggi, hanno protette 79 navi, neutralizzando 9 droni, 1 nave di superficie senza equipaggio e 4 missili balistici. 

Più lontano, ma dentro il Risiko mondiale che contrappone armi in pugno “filomaericani” e “antagonisti”, in Ucraina l’esercito russo sta tentando di sfondare le difese ucraine a Chasiv Yar, a circa una ventina di chilometri a ovest di Bakhmut. Le truppe ucraine sono in netta inferiorità numerica e alle prese con la carenza di munizioni. Dovesse riuscire lo sfondamento, Mosca sarebbe vicina all'occupazione dell'intero Donbass. Il crollo del fronte ucraino sarebbe possibile ed imminente, secondo alcuni analisti militari britannici. Non per la mancanza di jet o carri armati, ma per l’impossibilità di rimpiazzare le perdite umane. Kiev fatica sempre più a trovare uomini e donne da mandare al fronte. A questo si aggiunge la sensazione, diffusa fra l’opinione pubblica ucraina, che l’Europa sia ormai distratta da quanto sta accadendo nel Vicino Oriente. Gli osservatori dicono che crescono pessimismo e sensazione di isolamento. Due stati d’animo che non aiutano a resistere.

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