Tazzine di chay

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Foto: M. Canapini ®

La dogana è vuota come una bolla d’aria. 

Solo ieri la città di Istanbul è stata teatro di scontri tra polizia e studenti. 

Nelle ore serali, sotto una pioggerellina battente, mi dirigo verso l’ormai celebre piazza Taksim

Poco distante, come un'insolita macchia verde affiora Gezi Park, simbolo delle proteste scoppiate nel paese trenta giorni fa. Il parco pare intatto, circondato dalle transenne della guarda nazionale. 

Dodici poliziotti assonnati giocano a carte dentro gli autoblindati spenti. 

Mancano pure gli studenti che da circa due settimana presidiano l’area giorno e notte, dormendo nei sacchi a pelo. Alle prime luci dell’alba decido di partire immediatamente per Ankara, fulcro di proteste, dibattiti e riunioni. Sei ore di viaggio verso sud, attraverso rocciosi altopiani, lande deserte, remoti paesini composti da dieci case ed un pinnacolo lucente. 

Incontrando attivisti e studenti, intuisco ben presto che il piano governativo di radere al suolo Gezi Park è stata la goccia che ha fatto traboccare un malcontento generale in letargo da tempo, dando vita a focolai di resistenza in 67 città turche. 

“Le cause reali sono da vedere nella politica del presidente Erdogan - dice Saltuk - una politica autoritaria, mirata sempre più alla graduale islamizzazione del paese. 

Tanti cittadini temono questo cambiamento, paragonando l'ideologia fondamentalista con quella in atto nel vicino Iran. L'eventuale islamizzazione non è fortemente criticata per intolleranza religiosa sia chiaro, ma perché crediamo ancora in uno dei principi basilari della costituzione stipulata da Ataturk nel 1923, ossia il laicismo.

Così facendo il presidente Erdogan e la sua schiera di politici sta limitando la libertà di pensiero ed espressione del popolo, distaccandosi dagli ideali nazionalisti che contraddistinguono da sempre la Turchia”.

Sakine prosegue, sorseggiando del the caldo. 

"Da quindici anni lavoro come hostess presso una compagnia di voli interni; 

Già vedo che eventuali decisioni governative potrebbero cambiare anche i più piccoli assetti del mio lavoro. 

Non più gonne sopra le ginocchia o divise a maniche corte per esempio". 

Una prof.ssa di francese risiedente ad Ankara invece contesta la posizione dell'Islam all'interno delle aule scolastiche. "Si è sempre insegnato liberamente senza problemi, ora coi referendum scolastici sull'integrare o no lo studio dell'Islam o far indossare il velo alle bambine rischiamo di creare controversie non volute e limitare l'integrazione infantile. Nessuno qui è contro i musulmani e l’Islam, ci sono tantissime moschee in città, ma il punto è che non si può calpestare il laicismo con una politica da regime". 

Dopo Gezi Park si è diffusa in tutta la Turchia il sostegno alla libertà di pensiero, alla solidarietà ed alla democrazia.

Nel pomeriggio incontro Niccolò e Silvia, due studenti italiani residenti ad Ankara. 

Mi spiegano, a voce bassa, ciò che accadeva abitualmente durante le prime, acerbe proteste. 

"Il trentuno maggio sono cominciate le manifestazioni di massa. 

Studenti, operai, professori di età differente si sono riversati per strada armati di pentole, cucchiai, bonghi e cartelloni. Volevano offrire sostegno ai manifestanti di Istanbul" racconta Niccolò.

"La situazione poi è peggiorata e la polizia ha represso nel sangue questi assembramenti, sgomberando presidi ed arrestando studenti. Fortunatamente l'esercito è ancora presente nella vita politica delle persone. 

Ho visto militari fornire mascherine antigas ai manifestanti ed aiutare i dispersi. 

Le autorità hanno dato l’ordine di sparare lacrimogeni ad altezza uomo, spruzzare liquido urticante contro le persone, arrestare studenti sì, ma anche anziani, donne, giornalisti o medici che prestavano soccorso ai manifestanti. La città era blindata, e dunque la metro, i centri commerciali, locali vari”. 

Silvia dà ma forte, condividendo un aneddoto preciso. 

"Eravamo seduti nelle scalinate di un locale, io ed altre cinque persone. 

Non erano in corso raggruppamenti o tafferugli. 

Non capendo come e perché, dall'alto piomba un lacrimogeno… ci alziamo e corriamo dentro il locale in procinto di chiudere. Rimaniamo chiusi all'interno fino all'una di notte. 

La polizia per strada. 

Sentivamo urla, spari, alla tv le notizie dei primi due morti". 

Guardandola penso alla paura. Non al panico. Quella paura densa, mista all’incredulità.

Percorro distrattamente le vie larghe e strette di Ankara. 

Bandiere turche con stampato il mezzobusto di Ataturk; non riesco a contarle talmente tante. 

Appese nei balconi, sui tettucci delle macchine, tra i rami degli alberi. 

Lascio alle spalle i grassi panini del Burger King e le mille luci della civiltà

Venditori ambulanti di calzini, pannocchie, occhiali da sole, stringono amicizia con madri rom, suonatrici di fisarmoniche.

Un bambino, sdraiato all’ombra del cavalcavia mi allunga un pacchetto di fazzoletti.

Con estrema lentezza torna al suo avamposto, perdendosi tra i vapori di un Kebab ancora aperto.

Sottosuolo. 

Her jer Lice her jer direnis! Ogni posto è Lice ogni posto è resistenza” urlano a gran voce i manifestanti.

Abbandonare i canoni nazionalisti e lasciar spazio all'integrazione. 

Ultimamente molti curdi scendono in strada assieme ai ragazzi turchi. 

Si uniscono, si abbracciano e gridano contro Erdogan, l'Europa, il mondo intero. 

Inizialmente la parola Lice era Istanbul o Ankara.

Nessuno avrebbe mai pensato ad un tale cambiamento, così grande da poter collocare il nome di una città curda all'interno di uno slogan popolare turco. 

Giorno dopo giorno i sassi non vengono più lanciati. Le vetrine non sono più prese a calci. 

Le auto non vengono ribaltate per creare barricate. Le persone si sono fermate. 

Alla violenza della polizia molti hanno risposto con cartelloni ironici o con il lancio di mazzetti di garofano.

La protesta sta diventando sempre più una vera e propria resistenza pacifica. 

Qualche tempo fa - ancora la notizia è sulla bocca dei locali - un uomo è rimasto in piedi in mezzo a piazza Taksim per sette ore. 

Fissava la bandiera di Ataturk appesa nella fiancata di un imponente edificio.

La polizia davanti, a circa trecento metri di distanza. 

DURAN ADAM (l'uomo che sta fermo): così lo hanno chiamato, elevandolo a nuovo e ulteriore simbolo delle proteste. Un giorno lui, solo. Poi in quattro, otto, cinquanta, cento… e i sindacati, i comitati, sindaci dei piccoli comuni. Piazze gremite di persone che fissano una bandiera.

Kugulu Park, luogo di ritrovo per forum e dibatti serali. 

Ogni giorno una nutrita percentuale di cittadini (dai 10 agli 80 anni) si ritrova alle 20.00 in punto all'interno del parco, nella collina vicino allo stagno dei cigni. 

Dei pennuti animali nessuna traccia, evacuati durante gli scontri per "eccessiva quantità di lacrimogeno inalato". Dal fitto degli alberi sbucano a gruppetti i partecipanti all’iniziativa. 

Le persone si fanno vicine. 

Il chay, tipico the turco servito con due o tre zollette di zucchero aiuta a scaldarsi. 

Un ragazzo prende parola al microfono e racconta delle recenti proteste pacifiche organizzate altrove. 

Si parla della percentuale di voto al governo, della situazione economica, della tolleranza tra cristiani, atei e musulmani, per poi continuare con la libertà di espressione e di culto. 

Non c'è polemica nelle parole, nessuno ribatte, si ascolta in silenzio

Se si è d'accordo col discorso affrontato, si alzano e si scuotono le mani. 

Se si è contrari si incrociano gli avambracci e si aspetta il proprio turno per prendere parola. 

Utili accorgimenti per interagire ma anche per non disturbare le altre persone presenti nel parco con applausi o grida di approvazione. 

L'ultimo spunto della riunione è stato l'intervento di uno studente all’ultimo anno di scienze infermieristiche. "Ricordiamoci che non siamo da nessuna parte politica, siamo dalla parte dei martiri, coloro che in queste proteste hanno perso la vita lasciandoci in dovere di continuare a credere nel cambiamento”.

Scatto qualche fotografia. 

“Vedi il mio braccio ingessato? Me l’ha rotto la polizia durante gli ultimi scontri” grida un uomo, notando la macchina fotografica. 

Al suo fianco è seduto Osan, un ragazzo di venticinque anni, ex militare inviato in nord Iraq

Non combattiamo più per quattro alberi, ora combattiamo contro il sistema

Gli uomini del partito di Erdogan sono all’interno di ogni contesto sociale (università e esercito compresi). 

Intorno al 15 settembre si riprenderà con gli scontri, i forum si riempiranno di nuovo. 

Noi continuiamo a rimanere uniti, organizzare letture all’aperto e giochi per i bambini. Resistiamo”. 

Bevo l’ennesima tazzina di chay, addento una caramella gommosa e prendo appunti. 

Nel cortile di un pittoresco pub, ascolto Firat arrabbiarsi. 

Pinte di birra fresca continuano a danzare, all’infinito, sul tavolo in legno.

“Noi curdi siamo un’etnia, una minoranza, ma è dal 1923 che chiediamo libertà e maggiori diritti.

La Turchia mantiene una mentalità chiusa e contro di noi l’esercito turco ha perpetrato ogni tipo di violenza, distrutto fino a cinquantamila villaggi. In trent’anni hanno ucciso migliaia curdi nelle regioni ad Est e nessuno ha mai fiatato. Fino a pochi anni fa era vietato persino parlare curdo in pubblico.

Dal 2006 chiediamo democrazia; durante le proteste in piazza Taksim non sostenevamo esclusivamente Gezi Park ma chiedevamo prima di tutto maggiori diritti per il nostro popolo. 

Come l’educazione scolastica in lingua madre e la provenienza esatta nella carta d’identità. 

Essere riconosciuti insomma”. 

Il popolo curdo è composto da circa 23 milioni di persone, sparse in cinque paesi: 

Turchia 10 milioni; Iran 6 milioni; Iraq 6 milioni; Siria 800.000, Armenia 350.000 (senza contare quelli della diaspora). 

Nel 1946 la prima repubblica curda rimase in vita meno di un anno e fu soppressa violentemente dal sovrano di Theran. Il suo leader, Mohammed Gazi ed i dodici ministri di quel primo, piccolo stato curdo furono impiccati. Durò solo due mesi, ma durante quel periodo ci fu un avvenimento incredibile per un paese del Medio Oriente: una legge che sanciva la parità di diritto tra uomo e donna.

La serata si concluderà la mattina seguente sulle panchine di un parchetto pubblico.

Dopo fiumi di birra, animate discussioni e zuppe di pollo, veniamo inghiottiti dai fedeli diretti in moschea. 

L’ultimo giorno di ramadan si è appena concluso.

Diari estrapolati dal libro “Verso Est - appunti di viaggio” di Prospero Editore

Matthias Canapini

Matthias Canapini è nato nel 1992 a Fano. Viaggia a passo lento per raccontare storie con taccuino e macchina fotografica. Dal 2015 ha pubblicato "Verso Est", "Eurasia Express", "Il volto dell'altro", "Terra e dissenso" (Prospero Editore) e "Il passo dell'acero rosso" (Aras Edizioni).

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