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Più dighe = più energia? No più malaria!
Popoli minacciati
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La malaria è tra i principali problemi di salute che colpiscono l’Africa sub-sahariana. In quella parte di mondo si registrano 174 milioni di casi di malaria l’anno. "Un milione più o un milione meno non cambia poi molto", avranno pensato i lungimiranti sostenitori della costruzione di mega dighe e fa nulla se adesso anche un delicatissimo problema per la salute pubblica va ad aggiungersi ai numerosi studi che dimostrano come molti imponenti sbarramenti sono troppo costosi e ben poco sostenibili anche dal punto di vista ambientale. Uno studio dell’University of New England (Australia), infatti, pubblicato dalla rivista Malaria Journal, ha annunciato che “un milione di africani quest’anno contrarranno la malaria a causa delle dighe”. È la prima volta che un gruppo di ricercatori dimostra l’incidenza delle infrastrutture idriche sulla trasmissione della malaria e lo hanno fatto monitorando 1.268 dighe, due terzi di queste collocate in territori considerati “endemici”, cioè che favoriscono la proliferazione delle zanzare, che quando infette, veicolano la malattia.
Per coloro che vivono nei pressi delle dighe, soprattutto in quei territori già costretti a fare i conti con la malattia, la situazione rappresenta un’ulteriore complicazione dei tentativi di arginarla. Parliamo di numeri importanti, visto che circa 15 milioni di persone attualmente risiedono in un raggio di 5 chilometri dalle dighe prese in esame. Il team di scienziati, guidato da Solomon Kibret, ha calcolato che nel prossimo futuro “vi saranno tantissimi casi annui di malaria in più, ascrivibili alla costruzione delle dighe” alla luce della realistica previsione che nell’Africa Subsahariana, nel corso dei prossimi anni vengano erette circa 80 nuove infrastrutture. Non si discutono le migliorie dal punto di vista energetico, economico e della sicurezza alimentare, però, come ha spiegato Mattew McCartney, un altro dei ricercatori dell’Università del New England che ha partecipato alla ricerca “non è etico che le persone che vivono nelle immediate vicinanze di una diga debbano pagare il prezzo dello sviluppo”. Per questo motivo, gli scienziati hanno proposto alle autorità di adottare misure preventive almeno per bonificare alcune zone con la semplice distribuzione gratuita di zanzariere e l’introduzione di pesci che si cibano delle larve di zanzare.
Ma i danni alla salute sono che l’ultima conseguenza negativa di alcuni di questi faraonici progetti che nell’impianto idroelettrico di Belo Monte, nel cuore dell’Amazzonia, sembrano condensarsi. È notizie di pochi giorni fa che la guerra di carte bollate che segna da anni questo progetto ha fatto registrare l’ennesimo episodio: l’IBAMA, la Commissione ambientale e per le fonti rinnovabili brasiliana, ha negato la licenza operativa alla Norte Energia, il consorzio composto da compagnie energetiche e fondi di investimento che ha finanziato la realizzazione di Belo Monte. Per ora quindi non si potrà riempire il bacino artificiale fondamentale per iniziare la produzione energetica. Le motivazioni addotte dall’IBAMA per la sua decisione sono “l’assenza delle misure di mitigazione e di compensazione degli impatti del progetto”. In particolare, se quasi 500 i chilometri quadrati di foresta sono stati già inondati cancellando un importante tratto di una delle foreste pluviali più ricche di biodiversità del Pianeta e se sono state già state sfollate oltre 20mila persone, come ha evidenziato l’IBAMA, “i promessi risarcimenti per chi ha perso la propria abitazione e i propri mezzi di sostentamento non sono stati fino ad oggi adeguati e sufficienti”.
Per chi si fosse perso la storia di Belo Monte è bene ricordare che questo sbarramento sorge su un’immensa curva del fiume Xingu, uno tra i principali affluenti del Rio delle Amazzoni, ed ha un’ampiezza di circa sei chilometri per un’altezza di 36 metri, utili per generare oltre 11mila megawatt. Un mare di energia che servirà per alimentare l’industria mineraria e le grandi città del sud, soprattutto nello stato di Minas Gerais, dove sarà veicolata tramite un potente elettrodotto di 2.100 chilometri e un sistema di tralicci e cavi da 800mila volt che attraverserà mezzo Brasile, invadendo aree protette e territori indigeni. Anche per l’invasività ed ampiezza del progetto la lotta degli indigeni brasiliani contro Belo Monte (la terza diga più grande del mondo) è stata punteggiata da azioni eclatanti e spettacolari, che però non hanno fatto desistere il Governo verde oro dalle proprie intenzioni. In un paio di occasioni fra il 2011 e il 2012 sono state delle corti federali a determinare con dei loro pronunciamenti il blocco dei lavori, ma il nulla osta definitivo sull’opera è arrivato nell’agosto del 2012 dalla Corte Suprema Federale.
Anche in occasione di questo nuovo stop ai lavori i responsabili della Norte Energia hanno ostentato sicurezza, ribadendo che quello dell’IBAMA "non è uno stop definitivo", quanto un invito a "prendere provvedimenti per sanare alcune anomalie ancora esistenti sul campo". Il dato di fatto è che un’opera mastodontica è adesso bloccata e che i timori espressi dalle organizzazioni della società civile locale e internazionale sulle problematiche legate al progetto si sono rivelati tutti ben fondati. Tuttavia visti i costi dell’impresa, circa 16 miliardi di dollari per la diga e 2,5 miliardi per la linea di trasmissione, finanziati in larga parte dalla BNDES, la Banca di Sviluppo del Brasile è difficile ipotizzare che Belo Monte rimarrà un’opera inutilizzata. L’impressione è che nei prossimi anni vedremo sorgere non solo in Brasile, ma nel mondo, molti altri progetti di dighe dai grandi interessi economici e per ora non sembra il pericolo della malaria a frenare questo “sviluppo” tutt'altro che umano. E poco importa se il lavoro per debellarla è degno del premio Nobel per la medicina 2015.
Alessandro Graziadei

Sono Alessandro, dal 1975 "sto" e "vado" come molti, ma attualmente "sto". Pubblicista, iscritto all'Ordine dei giornalisti dal 2009 e caporedattore per il portale Unimondo.org dal 2010, per anni andavo da Trento a Bologna, pendolare universitario, fino ad una laurea in storia contemporanea e da Trento a Rovereto, sempre a/r, dove imparavo la teoria della cooperazione allo sviluppo e della comunicazione con i corsi dell'Università della Pace e dei Popoli. Recidivo replicavo con un diploma in comunicazione e sviluppo del VIS tra Trento e Roma. In mezzo qualche esperienza di cooperazione internazionale e numerosi voli in America Latina. Ora a malincuore stanziale faccio viaggiare la mente aspettando le ferie per far muovere il resto di me. Sempre in lotta con la mia impronta ecologica, se posso vado a piedi (preferibilmente di corsa), vesto Patagonia, ”non mangio niente che abbia dei genitori", leggo e scrivo come molti soprattutto di ambiente, animali, diritti, doveri e “presunte sostenibilità”. Una mattina di maggio del 2015 mi hanno consegnato il premio giornalistico nazionale della Federazione Italiana Associazioni Donatori di Sangue “Isabella Sturvi” finalizzato alla promozione del giornalismo sociale.