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Il colpo di stato in Mali visto dal Mali
Popoli minacciati
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Foto: Unsplash.com
È un colpo di stato quello del 18 agosto 2020. Evento ben noto nel continente africano. Ma viviamo nell’epoca delle relazioni globali e un colpo di stato che sembrerebbe riguardare un angolo circoscritto di mondo, seppure quattro volte più vasto dell’Italia, in realtà acquista un raggio d’azione molto più ampio dei confini nazionali. La “lontana” Cina ha avuto subito reazioni molto negative nei confronti dell’accaduto come pure i paesi vicini, la CEDEAO e numerosi governi ed istituzioni internazionali attenti e inquieti per la situazione maliana. Vedere i soldati imbracciare le armi per rovesciare il regime di Ibrahim Boubacar Keïta non è certo un segnale positivo e fa pensare ad una ripresa diffusa della violenza in un paese già fragile e martoriato da un decennio di instabilità. Nel 2012, il colpo di stato che ha rovesciato Amadou Toumani Touré, predecessore di Keïta, è partito dalla caserma di Kati, esattamente da dove è iniziato l'ammutinamento di qualche giorno fa.
Insieme alle questioni interne ci sono anche gli interessi economici, importanti, senza scrupoli degli investitori esteri. Il Mali è una miniera d’oro giallo e nero, ma anche l’industria tessile, le telecomunicazioni, le grandi opere infrastrutturali e la finanza sono settori redditizi sui quali gli investitori esteri non esitano a mettere il loro zampino. La Cina è uno dei principali insieme al Regno Unito, all’Australia, al Canada e al Sud Africa; ma di mezzo ci sono anche la Russia e la Turchia. Che ruolo hanno e avranno nel prossimo periodo? Con questi paesi ci sono accordi, intese, negoziati curati da Keïta e dalla sua cerchia.
Mentre questi paesi interessati guardano da lontano, nel cuore della nazione, a Bamako c’è chi saluta trionfante l’esercito e chi sente il disagio e l’apprensione per un futuro dall’esito incerto. E sul resto del territorio nazionale come viene vissuto questo momento? Il Paese è senza presidente, senza un governo e senza un’assemblea parlamentare. Le armi circolano e circola anche la paura che qualcosa sfugga di mano e si allarghi a macchia d’olio. Cosa sta succedendo? Alzo il telefono perché lì abitano amici e amiche, alcuni sono immigrati e in Mali hanno trovato lavoro e amore, altri sono nati lì. Inizio a fare telefonate, faccio domande e le risposte che ricevo formano una voce sempre più forte.
Quali sono le ragioni che hanno portato i militari a prendere il potere?
Le ragioni sono molteplici. Gli stessi militari ne hanno evocate alcune legate alle questioni di sicurezza, ma anche sanitarie e socio-politiche. Ma ce ne sono altre: l’ingiustizia, l’impunità, la “promozione” di chi sbaglia, il mal governo, le “reazioni” al posto di una vera azione di governo, ecc.. Il sospetto, legato alla mancanza di dialogo franco tra i protagonisti, ha generato la putrefazione del clima a vantaggio dei militari. Inoltre i testi istituzionali sono da spazzar via… e da rifare. Bisogna tener presente che questa crisi è soprattutto socio-politica ed è nata dalle elezioni legislative di marzo-aprile 2020 a seguito delle quali trentuno deputati “nominati” hanno preso posto all’Assemblea Nazionale a detrimento di quelli risultanti dagli spogli elettorali.
Cosa rivendica la popolazione in questo ultimo periodo?
La crisi è multiforme e il settore dell’educazione è uno dei luoghi più toccati. Sul piano politico però la rivendicazione più forte è quella dei brogli elettorali. A questo si aggiunge la dilagante ingiustizia, l’impunità, il mal governo, ecc. questioni per le quali sono state chieste le dimissioni del Presidente in quanto incompetente, incapace, corrotto, del presidente dell’Assemblea Nazionale, del Primo Ministro e del suo Governo capaci solo di governare attraverso un gestione clanica, leggasi familiare.
Cosa pensano i maliani di questo colpo di stato?
Per buona parte dei maliani, concentrati sulla forma più che sul contenuto di quanto sta dietro l’accaduto, si tratta della fine di un braccio di ferro e la preoccupazione più forte riguarda le ricadute negative, se non la paralisi, delle varie attività quotidiane dalle quali ne ricava la sopravvivenza; ma c’è anche il timore di un bagno di sangue. Per una piccola minoranza, invece, diciamo pure per una certa élite, questo colpo di stato è l’occasione per ritracciare un percorso di buon governo attraverso la ricerca di istituzioni forti basate su testi senza equivoci.
Come vengono vissuti questi giorni di incertezza dalla popolazione? Cosa significa concretamente per le persone vivere un colpo di stato?
L’incertezza è più legata alla scarsa conoscenza di coloro i quali hanno preso il potere e delle loro reali ambizioni. Quale direzione daranno alla loro azione? “Speriamo che la storia non si ripeta!” – dicono tutti ricordando il colpo di forza perpetrato da Amadou Sanogo nel 2012.
Quali sentimenti circolano?
Il sentimento è misto: da un lato c’è la sensazione di essersi liberati dalla promesse non mantenute, dall’immobilismo, dalle speranze disattese; dall’altro la paura delle sanzioni e di un embargo vincolante. La maggior parte della popolazione ha accolto il colpo di Stato e continua tranquillamente con le proprie occupazioni: gli uffici sono aperti, il settore informale non si ferma. In Mali c’è consuetudine ai colpi di Stato, questo è il quarto dalla nascita del Paese e due si sono compiuti in meno di dieci anni, uno nel 2012 e uno, l’ultimo, nel 2020. Anche il Presidente e il suo clan avevano preannunciato questo colpo di stato – “se non sarà l’esercito, sarà la disobbedienza civile, l’insurrezione popolare, ad aver ragione”.
Il paese è fragile e allo stesso tempo condizionale dagli interessi economici del mondo intero (Cina, Australia, Canada, Sud Africa, ecc.)… cosa significa questo colpo di stato dal punti di vista delle relazioni internazionali?
Per un maliano istruito la chiusura delle frontiere, la limitazione dei flussi finanziari a livello bilaterale e multilaterale sono delle condanne di principio. Però sono condanne di breve durata e non sono mirate, questo fa sì che il loro impatto sia minimo. La transizione del 2012 ha dimostrato che il Paese può contare sulle sue risorse. Il maliano medio invece respinge gli interventi della CEDEAO; non esita a condannare i testi che proteggono i capi di Stato, ma non i popoli che aspirano ad una vera democrazia. In generale e nello specifico nella regione dell’Africa occidentale, grazie ai social, ogni intervento, indipendentemente dalla provenienza, solleva automaticamente un sentimento di “non lasciarsi fare”.
Cosa potremmo immaginarci per il futuro? Quali scenari potrebbero essere possibili?
Lo scenario più plausibile è quello a breve termine. Si tratta dell’avvio della transizione, la definizione della sua durata e dei suoi obiettivi, soprattutto la scelta di Uomini credibili per la loro realizzazione. Qualcuno chiede l’esclusione della classe politica del 1992 che è ancora e sempre coinvolta negli affari e che è presente in modo indistinto sia tra la maggioranza che tra l’opposizione (sempre le stesse teste che animano la vita politica) e ha, in un modo o nell’altro, legami con l’estero, non solo con la Francia e per questo è ritenuta la valletta locale del colonizzatore. Questa classe dirigente non può portare il paese a riforme “sovrane (senza ingerenza, senza influenza) e repubblicane”, come invece vuole il popolo. Serve un’alternativa a chi vuole rimanere per sempre nell’arena politica con lo scopo di salvare i propri conti arretrati, servono persone “nuove” per contribuire a costruire istituzioni solide e credibili. Parallelamente, sarà fondamentale lavorare per contenere l’avanzamento dei jiadisti e riconquistare i territori nelle loro mani.
Un messaggio per il Mali?
Lavorare sulle istituzioni, e quindi sulle persone, sull’educazione ai diritti e alla cittadinanza, all’onestà, all’integrità. Il Mali merita di più.
Seguiremo con attenzione l’attività di negoziazione di questi giorni che vede la CEDEAO al centro delle trattative: la situazione in Mali ha dei riflessi e delle conseguenze anche sui paesi limitrofi e non solo. Sembra definirsi la via diplomatica della ricostruzione della legittimità istituzionale con l’obiettivo di ristabilire l’equilibrio tenendo al centro la sovranità del popolo (che vuole tornare a votare il prima possibile!). Chissà se ai proclami si aggiunge anche un’azione conseguente. Confidiamo non si ceda alla tentazione di mantenere tutto così com’è … c’è bisogno di democrazia e di spazio per esercitare la capacità di aspirare ad un futuro di pace.
Sara Bin

(1976) vive in provincia di Treviso e lavora a Padova. É dottore di ricerca in geografia umana; ricercatrice e formatrice presso Fondazione Fontana onlus dove si occupa di progetti di educazione alla cittadinanza globale e di cooperazione internazionale; è docente a contratto di geografia politica ed economica; ha insegnato geografia culturale, geografia sociale e didattica della geografia. Collabora con l’Università degli Studi di Padova nell'ambito di progetti di educazione al paesaggio e di formazione degli insegnanti. Ha coordinato lo sviluppo e l'implementazione dell'Atlante on-line in collaborazione con il Ministero dell'Istruzione, del'Università e della Ricerca. Dal 2014 fa parte del gruppo di redattori e redattrici di Unimondo. Ha svolto attività didattica e formativa in varie sedi universitarie, scolastiche ed educative ed attività di consulenza nell’ambito della cooperazione allo sviluppo. Tra i suoi principali ambiti di ricerca e di interesse vi sono le migrazioni, la cittadinanza globale, i progetti di sviluppo nell’Africa sub-sahariana, lo sviluppo locale e la sovranità alimentare. Ha svolto numerose missioni di ricerca e studio in Africa, in particolare in Burkina Faso, Senegal, Mali, Niger e Kenya. E' membro dell'Associazione Italiana Insegnanti di Geografia e presidente della sezione veneta.