Guerre a bassa intensità (ma non meno tragiche)

Stampa

“Come americani consideriamo la democrazia come la migliore forma di governo, ma essa non è sempre la più efficiente” - Joint Low - Intensity Conflict Proyect Final Report, 1986

Quella delle guerre a bassa intensità è una strategia anti-insurrezionale pianificata nella seconda metà del secolo scorso e che venne messa in atto dagli Stati Uniti a partire dagli anni ’80. Negli anni ’70, alla sconfitta statunitense in Vietnam, erano infatti seguite varie vittorie da parte di fronti popolari in paesi come Laos, Cambogia, Mozambico, Angola, Etiopia, Yemen del Sud, Grenada e Nicaragua. In un contesto internazionale marcato dalla guerra fredda e nell’ottica imperialista statunitense, che non poteva assolutamente permettersi un altro Vietnam ed il dilagare di iniziative di stampo popolare e rivoluzionario, venne dunque coniata una vera e propria dottrina del conflitto a bassa intensità. Forgiata in piena era Reagan, tale dottrina derivava da un progetto del Pentagono, i cui risultati vennero raccolti nel Joint Low-Intensity Conflict Proyect Final Report (scaricabile integralmente qui) del 1986. La crescente necessità da parte degli USA di rafforzare la propria egemonia a livello internazionale giustificava dunque l’impiego di questa dottrina, con l’obiettivo di bloccare con ogni mezzo, anche offensivo, le iniziative rivoluzionarie e di guerriglia nei paesi cosiddetti del terzo mondo. Anche se non si tratta dell’unico contesto interessato, è in America Latina, il “cortile di casa” degli Stati Uniti, che questo tipo di strategia bellica fu implementata con successo in paesi come Nicaragua (1981), Honduras (1981), El Salvador (1984) e Guatemala (1986). In questi paesi le forze paramilitari assunsero un ruolo essenziale per quanto riguarda la distruzione dei movimenti sociali e popolari e l’instaurazione del terrore come mezzo di controllo.

La condizione perché si verifichi tale tipo di intervento contro-guerriglia è l’esistenza di governi o movimenti contro-egemonici o con un profondo radicamento popolare che resistano o si oppongano ad interessi coloniali o imperialisti. La guerra a bassa intensità si sviluppa dunque lungo una pluralità di linee d’azione che includono aspetti militari, politici, economici e psicologici e dove i sistemi di intelligence giocano un ruolo cruciale. Il dispiegamento sistematico delle forze armate non è efficiente per questo tipo di strategia, che deve tenere in considerazione tutti gli aspetti sopra citati, dato che il fine è quello del controllo della popolazione attraverso la promozione di movimenti contro-rivoluzionari che divengono perno per la risoluzione del conflitto. In questo senso le forze paramilitari assumono un ruolo chiave, causando da un lato una maggiore legittimità delle forze armate ufficiali, e dall’altro fomentando la possibilità di rotture e scissioni all’interno dei movimenti popolari, accrescendone le divisioni e dunque la debolezza.

Anche l’aspetto psicologico assume un’importanza fondamentale. L’obiettivo è infatti quello di seminare il terrore tra la popolazione, affinché molti abbandonino le organizzazioni anti-governative e vedano di buon occhio le azioni dell’esercito regolare, chiamato a mettere “ordine” e a risolvere la situazione di crisi.

Secondo il sociologo messicano Adrián Galindo de Pablo i conflitti a bassa intensità si sviluppano lungo tre principali fronti: quello militare, che privilegia interventi militari di tipo chirurgico, destinati cioè ad azioni rapide e mirate contro obiettivi specifici, oltre che aiuti umanitari e costruzione di infrastrutture come mezzo di penetrazione nelle comunità in un’ottica di guerra psicologica; quello delle istituzioni militari e civili, che privilegia azioni di tipo politico infiltrandosi nelle comunità per minare le basi d’appoggio ai movimenti contro-egemonici, ad esempio attraverso progetti produttivi e di sviluppo socioeconomico che tentano di minare l’organizzazione sociale comunitaria esistente; infine il fronte dell’opinione pubblica, che mira a gettare discredito sul nemico e allo stesso tempo ad incensare il ruolo delle forze armate attraverso un controllo massivo dei mezzi di comunicazione.

A partire dal 1989, con la fine della guerra fredda, non si è comunque assistito ad una diminuzione né tantomeno scomparsa di questo tipo di intervento bellico. E’ proprio del 1989, sotto la presidenza Bush senior, l’intervento statunitense a Panama, uno dei contesti dove la strategia della guerra a bassa intensità ha raggiunto i suoi massimi livelli. Circa 2000 panamensi, in maggioranza civili, persero la vita, contro 250 tra morti e feriti tra le file statunitensi in quella che venne definita dagli attaccanti come “operazione giusta causa”.

La guerra al narcotraffico è spesso stata usata come scusa per attaccare i movimenti guerriglieri all’interno di vari paesi, come Bolivia, Colombia e Perù. Sendero Luminoso e il Movimiento Revolucionario Tupac Amaru (MRTA) in Perù, così come  l’Ejército de Liberación Nacional (ELN) e soprattutto le Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia-Ejército del Pueblo (FARC-EP), sono state accusate di finanziare le proprie attività politiche e militari attraverso la produzione e l’esportazione di cocaina ed eroina verso gli Stati Uniti. In nome della guerra al narcotraffico, brutali violazioni dei diritti umani sono state perpetrate ai danni di civili, con assassinii mirati di dirigenti contadini e attivisti: 35000 sono i morti e desaparecidos prodotti dalla guerra contro-insurgente in Perù, mentre sono stati circa 3500 all’anno i morti in Colombia tra il 1989 ed il 1994.

E’ difficile quantificare quanti siano oggi i conflitti a bassa intensità in America Latina, il numero di vittime non è sufficiente a classificare questo tipo di conflitto e in alcuni casi all’interno di uno stesso paese vari conflitti si sovrappongono. Il barometro sui conflitti dell’Heidelberg Institute for International Conflict Research, nel riportare e classificare annualmente i conflitti a livello mondiale, non parla di conflitti a bassa intensità, anche se resta senz’altro uno strumento d’analisi utilissimo.

Per quanto riguarda l’America Latina il paese attualmente più segnato da conflitti, sia per numero che per intensità, è sicuramente il Messico, dove si intersecano i conflitti tra i gruppi di narcotrafficanti per il controllo del territorio, tra questi e gruppi paramilitari, esercito regolare, e autodefensas. Si può inoltre senz’altro parlare di guerra a bassa intensità a proposito dell’intervento statale con l’ausilio di paramilitari contro l’Asamblea Popular de los Pueblos de Oaxaca (APPO) nel 2006, e contro l’EZLN in Chiapas, conflitto che dura ormai da più di 20 anni. La guerra al narcotraffico in Messico ha inoltre generato una situazione di terrore e disordine che crea una situazione favorevole per omicidi e sparizioni contro dissidenti politici, giornalisti, attivisti dei movimenti sociali, con casi eclatanti come quello dei 43 desaparecidos di Ayotzinapa

Michela Giovannini

Dottoressa di ricerca in sviluppo locale, è appassionata di America Latina, popoli indigeni, autogestione, lotte e resistenze politiche e sociali. Ha trascorso periodi di studio e ricerca sul campo in vari paesi. Messico e Cile sono i principali contesti in cui si sono svolte le sue ricerche, dedicate principalmente a varie tipologie di organizzazioni dell'economia sociale e solidale.

Ultime su questo tema

Basta guerra fredda!

30 Agosto 2025
Il recente vertice di Anchorage ha aperto spiragli per un futuro meno segnato da conflitti e contrapposizioni. (Alex Zanotelli e Laura Tussi)

Il lavoro delle Ong nel Mediterraneo, tra minacce e ostruzionismo

29 Agosto 2025
Dopo l’attacco alla Ocean Viking, abbiamo intervistato Sara, Protection officer a bordo della nave Humanity 1. (Maddalena D´Aquilio

Global Sumud Flotilla: resistere per esistere

29 Agosto 2025
Dal Mediterraneo a Gaza: la più grande flottiglia civile mai organizzata per denunciare il genocidio e portare solidarietà al popolo palestinese. (Articolo 21)

Un No al Ponte con ventiquattromila baci

27 Agosto 2025
Prima di sapere se il Ponte crollerà o non crollerà, per la gente del posto sarebbe prioritario comprendere se riuscirà ancora a vivere e a respirare. (Jacobin Italia)

Giornaliste a Gaza

26 Agosto 2025
Le donne giornaliste di Gaza: “Continuano il loro lavoro nonostante siano bersagli di attacchi israeliani, di carestia e di violenza”. (Monica Pelliccia)

Video

Rapporto di Msf: almeno 6700 Rohingya uccisi nel Myanmar in un mese