Esuli e marmellata

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Foto: Matthias Canapini ®

Meiktila, Myanmar. Una diga ostruisce l’accesso ad un lago senza pesci. Gli ultimi pescatori, gettate le reti, han trovato impiego in fabbriche oltremanica.  L’acqua si intorbidisce, riflettendo il cielo guasto. Toe Toe, la fidata guida, chiede un passaggio a due barcaioli. Ci adagiamo su due minuscole piroghe in legno, quattro colpi di pagaia e siamo già nel ventre delle alghe. Quando la piroga si incastra in qualche secca melmosa, colpi robusti di remo danno guizzo all’imbarcazione che aspira acqua. Cola a picco a circa cinque metri dalla riva. Un ragazzo, debilitato per dissenteria, viene adagiato su una zattera d’emergenza. Di lì a poco scompare inghiottito dal tramonto. Sull’isolotto popolato da trecento esuli affamati, non vi è traccia d’ospedali, corrente elettrica, acqua potabile. Malattie come febbre gialla e tubercolosi mietono numerose vittime ogni anno. I bambini, rasati, mangiati dai pidocchi, tossiscono forte coprendosi il viso con i lembi dei vestiti cuciti a mano. Toe Toe sospira e racconta: “Sei la prima persona che porto in questo luogo. Sto pensando di organizzare qualche visita turistica… magari solo per una notte. Il denaro potrebbe aiutare questa gente a vivere meglio, sebbene il rischio di creare un turismo senza comprensione sia reale”. I paesani sono contenti che cammino a piedi scalzi, che mangio con le mani e che mi sforzo, inutilmente, di capirli. Non è un comportamento da Farang, dicono. Il regalo più bello me lo fanno loro, trattandomi come un fratello, offrendomi pezzi di carne secca e un letto per la notte, ricavato da reti romboidali e galleggianti. Prendo appunti utilizzando un foglietto macchiato. Una brigata di bambini subito mi circonda, passandosi l’unica torcia del villaggio per far luce sul taccuino, permettendomi di scrivere semplici pensieri. Tentano di esprimersi in inglese. Quando i bambini parlano una lingua straniera pare se la inventino all’istante. Esplosioni di vocali, sbuffate di fonemi, suono che si fa materia. Un monaco, scalzo anch’egli, fa visita al villaggio portando in spalla un televisore anni ’30, alimentato a pile. Rabbrividisco nell’osservare la scena: il cinema più bello della mia vita, malgrado tutto. La capanna accanto sbatte tritata dal vento. Turbini di polvere danzano nel crepuscolo. Cani randagi. Il repertorio si limita all’indispensabile, la vita è fin troppo dura, non c’è spazio per fatiche inutili. Si dorme nei vestiti coi quali si fatica, la faccia si lava con mezzo bicchiere d’acqua, il cibo spolpato fino all’osso. Ogni mattina tre bonzi circumnavigano il perimetro dell’isola chiedendo qualche offerta ai locali: ricevono lische di pesce barattato, pulcini, fiori, ortaggi, inchini. Aye Ky Int, una donna seduta vicino al santuario della Dea dei Serpenti, ci invita a bere del the verde, ennesima occasione per dialogare: “Molto difficile vivere qui. Dopo che il governo ha sbarrato il lago e modificato morfologicamente il territorio dobbiamo sempre trovare una piroga per raggiungere Meiktila, non si può più passare via terra. La miseria rende pazzi a volte. Tanti giovani muoiono per febbre gialla, ma ancora di più per quantità eccessive di whiskey ingurgitato, in vendita a pochi centesimi”. Come uno dei fratelli di Toe Toe, morto per cerosi epatica all’età di ventidue anni; beveva da quando ne aveva dieci. Quando la conversazione verte sul governo o sugli scontri tribali, la voce si abbassa, quasi bisbigliamo per paura di spie mimetizzate chissà dove. Guadiamo pozze fangose, mescolandoci coi maiali selvatici che corrono all’impazzata, liberi. Un’anziana zoppa, annaspante nella melma, vedendo finalmente una faccia straniera, urla per sfogarsi: “È impossibile vivere cosìNon riusciamo più a coltivare il riso e se peschiamo il poco pesce rimasto rischiamo di essere arrestati. Che qualcuno ci aiuti; a giorni si voterà, speriamo nella vittoria di Aung San Suu Kyi”. Nessuno fiata più. Soavi libellule sorvolano le acque circolari. Ancora una volta la Natura è stata messa in scacco dagli umani.

Un eremita Yathij taglia il mercatino di Kalaw, paese natale di Toe Toe. È una figura interessante, arcaica, un vecchio musulmano convertito al buddismo, ritiratosi in meditazione nella foresta. Toe Toe mi offre un piattone di mohinga, diligentemente preparato da Daw Shive That, novantaquattro anni, una dei più vecchi membri dell’etnia Pa Oh, discendenti (secondo un’antica e oscura leggenda) da una coppia di draghiOgni cinque giorni Daw scende dalle colline per vendere radici e bacche coltivate in casa. Sorride sotto al suo copricapo arancione, fiera di non poterselo togliere: le corna dei suoi antenati potrebbero scalfirne la docile figura. “Toe Toe, voterai il mese prossimo? Credi che la situazione peggiorerà? Il governo reagirà con la violenza? Perché sei così sicura del tuo voto?” chiedo con insistenza. “Credo che la situazione peggiorerà e migliorerà allo stesso tempo. Violenze, stupri e guerriglie accadono da sempre in Birmania; come successo precedentemente i militari useranno la violenza per sopperire remote forme di dialogo e democrazia… ma l’immagine mediatica della lady è grande e vanta tanti sostenitori. Le cose possono cambiare in positivo. Fino a qualche anno fa non c’erano turisti, i confini erano sbarrati, la gente affamata più che ora. Piano piano sempre più occidentali cominciano a visitare il nostro paese, portano soldi, lavoro, maggiore benessere. Stanchi e famelici ma estranei al capitalismo, o sereni con la pancia piena? So che in Occidente queste domande sono costanti, ma qualcuno di voi ha mai provato la fame? Non appetito, fame vera. Mangiare pugni di riso, bere l’acqua dalle pozzanghere?”. 

Fango e nebbia. Dai fianchi degli altopiani erbosi, compatte donnine scendono a valle con ceste ricolme di ortaggi.Un impasto surreale di etnie diverse. Riconosciamo gli Wa, gli Akha, antichi abitanti delle colline, coltivatori di papavero da oppio. Qualche Shan, guerriglieri dediti al contrabbando nel nord est del paese. I Mien, gli Hmong, i Pa Oh, i Da Nu e infine i Taung Yoo, tutte protette dalle loro vesti variopinte. Raccogliamo indicazioni lungo il cammino, chiedendo consigli su come individuare una delle ultime donne PadaungI passaparola hanno fattezze di occhi grandi, indici puntati, sorrisi sdentati. “Siete del governo?” tuona all’improvviso un contadino, all’imbocco di una stradina qualsiasi. “Spero per voi di no, qui odiamo il governo, uccidiamo i suoi funzionari” aggiunge deciso. Il posto si rivela giusto. Dove cova il popolo, l’autenticità è virtù. L'atmosfera è rotta dal grugnire dei maiali selvatici. Interfacciamo una reliquia. Daw Moe Phout, novantatré anni, è seduta in uno spigolo della capanna buia. I piedi immersi nella cenere del bivacco, manciate di riso nelle mani. Ventidue anelli al collo e cinque in entrambe le gambe, pesantissimi e lucenti. L'ultima donna Padaung del villaggio di East Ka Phu, punto imprecisato nel baricentro birmano. Pannocchie appese, vasi di terracotta. La voce è tremante, profonda, quasi appartenente ad uno spirito occulto. Nemmeno Toe Toe comprende il dialetto atavico della donna, dunque, in pochi secondi, la capanna si riempie di pastori, bambini, parenti di Daw Moe. Essi, ciclicamente traducono in birmano classico la narrazione, interrompendo i lavori agresti per dar man forte alla conversazione. Ci rimpiccioliamo tutti intorno al fuoco. “Sono nata nel 1922. Quando avevo vent’anni, durante l’occupazione anglo-giapponese, per far sì che non venissimo rapite e stuprate dalle truppe straniere, le nostre nonne ci chiesero di indossare gradualmente questo collare di spire metalliche, noto come zu ka baw realizzato grazie a una lega di ottone, oro e argento, eco nei copiosi bracciali metallici indossati ai polsi e nelle pesanti spire di ottone che cingono ancora i miei arti inferiori. Ricordo mia madre aver fatto lo stesso. Diventa brutta come una giraffa, dicevano le anziane, cosi da sfuggire alle minacce carnali. Cosi fu, sebbene non abbia mai visto militari spingersi fino a noi. Ancora oggi porto con me questi pesanti anelli, simbolo di oppressione e salvezza. Quando morirò non ne rimarranno altri, scompariranno con le ultime, vere Padaung. Nessuno toccherà questi cerchi d’ottone, sarò sepolta con essi, altrimenti gli antichi spiriti, i Nat, perseguiteranno per sempre coloro che conserveranno gli anelli fuori dalla legittima tomba”. Daw Moe passa le giornate nei campi setacciando riso biologico e producendo whiskey rurale. Lo assaggiamo da una brocca collettiva di terracotta, passante di mano in mano. Di fronte a tutti siede un’ultima simbologia destinata a scomparire, un miraggio che vivrà nel ricordo beffardo del pellegrinaggio euroasiatico. Tra i mille motivi esistenti (tra cui quello di indossare il collare per impedire alle Padaung di essere vessate dai membri di altre etnie, per accrescere la bellezza delle donne oppure per mostrare pubblicamente la ricchezza e la prosperità della famiglia), quello più attendibile conferma che l’utilizzo del zu ka baw è l’espressione tipica di un’adesione passiva alla propria cultura, perpetuata attraverso la meccanica di un gesto. A volte la tradizione è volutamente manipolata attraverso la diffusione di informazioni imprecise, con lo scopo di solleticare morbosamente la curiosità di potenziali visitatori, incrementando di conseguenza la presenza di flussi turistici. Parlando coi paesani scopro che non sono le vertebre ad allungarsi ma le clavicole e costole ad abbassarsi gradualmente sotto il peso delle spire. Falsa è anche l’idea secondo cui le donne una volta tolto il collare andrebbero incontro a morte certa. Secondo alcuni non è la cosiddetta tradizione ad obbligare le donne Padaung ad indossare il collare, lo è tuttavia il turismo, cieco braccio del capitalismo che fagocita c(o)ulture. 

Matthias Canapini

Matthias Canapini è nato nel 1992 a Fano. Viaggia a passo lento per raccontare storie con taccuino e macchina fotografica. Dal 2015 ha pubblicato "Verso Est", "Eurasia Express", "Il volto dell'altro", "Terra e dissenso" (Prospero Editore) e "Il passo dell'acero rosso" (Aras Edizioni).

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