“Caesar”: le torture nelle carceri siriane e la guerra dell’informazione

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Più di 50mila scatti, insostenibili, 28mila dei quali sono di cadaveri. A fotografarli era Caesar, pseudonimo attribuito a un ex ufficiale della Polizia Militare siriana che nel 2014 è fuggito dal paese riuscendo a portare con sé l’enorme archivio di immagini che documentano la morte e le torture subite dai detenuti nelle carceri di Bashar al-Assad tra il 2011 e il 2013. Alcune di queste foto sono state esposte dal 5 al 9 ottobre al museo Maxxi di Roma, in una mostra voluta e promossa da FNSI (Federazione Nazionale della Stampa Italiana), Amnesty International Italia, FOCSIV, Un ponte per…, Unimed e Articolo21. Giornate in cui le associazioni ne hanno approfittato anche per promuovere dei dibattiti sui conflitti che infiammano il Medio Oriente, in particolare quello siriano, e soprattutto sullo stato dell’informazione in una guerra i cui morti, stimati nel marzo 2016 ad “oltre 250 mila”, ormai neanche si contano più. 

“La stampa italiana guarda a intermittenza sulla tragedia siriana, a seconda della spendibilità della notizia – spiega il giornalista del Messaggero, Cristiano Tinazzi durante l’incontro di chiusura della mostra – Ormai siamo entrati in una logica quasi da guerra fredda che vede confrontarsi sullo scacchiere siriano Russia e Stati Uniti ma non solo, in una partita giocata sulla pelle della popolazione siriana”. Un confronto che si rispecchia anche nell’opinione pubblica e che in Italia spesso arriva ad assumere toni violenti, soprattutto online: dai troll anonimi alle “tifoserie”, tra fonti manipolate e accuse reciproche, in un crescendo di confusione andata di pari passo con la recrudescenza e violenza del conflitto.

Basti pensare all’irruzione dei militanti di Forza Nuova sabato 8 ottobre alla mostra di Caesar, con tanto di megafono e slogan gridati a sostegno di Assad e del suo alleato Putin, insieme ai volantini che hanno infilato perfino nella teche delle foto. Estrema destra e parti dell’estrema sinistra in questo caso si trovano dalla stessa parte nel condannare la rivolta siriana, che avrebbe portato all’invasione dei “tagliagole dell’Isis” al soldo degli Usa, mentre Assad è visto come il salvatore, garante della laicità e di una sorta di età dell’oro della Siria in cui c’era la pace e tutti stavano bene. Chi condanna Assad viene accusato automaticamente di giustificare le menzogne imperialiste americane, in una verità in bianco e nero, che non ammette toni grigi (come se la critica ad Assad potesse escludere automaticamente qualsiasi critica alla politica estera Usa). “I pozzi dell’informazione sono stati avvelenati” commenta il giornalista Amedeo Ricucci che spiega come i crimini da parte del regime siano cominciati molto prima della guerra, in una sistematizzazione della tortura che gli Assad si sono tramandati di padre in figlio, come denunciato anche da Amnesty International fin dal 1983.

“La rivolta in Siria è iniziata sulla scia delle primavere arabe del 2011 e chiedeva in realtà delle riforme, come democrazia e libertà” continua Ricucci. Queste manifestazioni di piazza sarebbero però state represse nel sangue, centinaia di civili sono finiti in prigione e molti sono stati costretti a imbracciare le armi. Iniziano ad accorrere combattenti dall’estero, mentre Assad contribuisce a rovinare l’immagine della rivoluzione concedendo l’amnistia che nel 2011 “ha fatto uscire dalle carceri migliaia di jihadisti”.  Il conflitto si amplia e si radicalizza, le crudeltà diventano sempre più indicibili, mentre i bombardamenti aerei da parte del regime e dei suoi alleati continua a radere al suolo le città.

In tutto questo, le foto di Caesar parlano chiaro: “Un’autorevole Commissione Internazionale di esperti forensi e giudici ha già passato al vaglio le immagini – affermano i promotori della mostra – certificandone l’autenticità e dichiarandone l’ammissibilità in caso di processo al regime siriano per crimini contro l’umanità”. Le foto sono già state esposte al Palazzo di Vetro dell’Onu, alla Commissione Affari Esteri del Congresso degli Stati Uniti, al Museo dell’Olocausto di Washington e nelle principali città europee. “Caesar non apparteneva né all’opposizione né al governo – spiega Moaz, componente del team Caesar – faceva il fotografo forense per la polizia militare siriana. Il suo lavoro consisteva nell’andare negli ospedali militari dopo ogni fatto grave o incidente e fare le foto, presentando un rapporto per la polizia. Nell’aprile del 2011, quindi quando per stessa ammissione del presidente la rivolta in Siria era ancora pacifica, gli fu chiesto di recarsi presso un ospedale militare a Damasco e lì vide 50 cadaveri che a lui apparvero come di civili, con dei chiari segni di tortura”.

Caesar rimane talmente scioccato che manifesta subito la volontà di fuggire dal paese. Eppure resterà in Siria per altri due anni, continuando a fotografare e salvando di nascosto le foto che poi avrebbe portato con sé per poterle mostrare al mondo. “Pensava che se il mondo avesse saputo e visto che degli innocenti venivano torturati in maniere così orribili, sistematiche ed estese, e con documentazioni tanto accurate e credibili – continua Moaz – di fronte a tutto questo non sarebbe potuto rimanere in silenzio”.

E’ così che in Italia la FNSI, le associazioni e anche il mondo cattolico, hanno deciso di scendere in campo, per provare a “depoliticizzare” le torture del regime e per restare al fianco della popolazione martoriata. “Quello siriano è un conflitto tremendo dove si intrecciano agende diverse e perseguite con assoluta efferatezza – commenta Attilio Ascani, direttore di Focsiv – Non possiamo fermare le bombe ma possiamo marchiare i perpetratori di queste violenze e fermare l’odio con gesti d’amore continuativi”. E’ anche a questo che serve “Humanity”, la nuova campagna di sensibilizzazione e raccolta fondi promossa da FOCSIV insieme a 6 tra i suoi Soci, per permettere che il lavoro svolto in questi anni a fianco delle migliaia di uomini e donne in fuga nell’area mediorientale possa proseguire.

Come quello di suor Hanan Youssef, libanese delle suore di Nostra Signora del Buon Pastore, che racconta come anche lei, che è dovuta fuggire a 11 anni a causa dell’attacco di Israele in Libano, da allora non ha più conosciuto momenti di pace. “La situazione attuale della Siria è però forse la peggiore che ho visto, una ferita nella coscienza della comunità internazionale” racconta, precisando come tutte le suore, soprattutto le più giovani, abbiano comunque deciso di rimanere a Homs. Una presenza concreta, sul campo ogni giorno a discapito di chi parla solo per sentito dire. “Perché è vero – dice – che un solo atto d’amore può cambiare la vita di una persona”.  

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