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Bombe atomiche in casa, ma “non siamo un paese nucleare”
Popoli minacciati
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Il 27 marzo, presso l’Assemblea Generale dell’Onu a New York, sono iniziati i negoziati in vista di un trattato per la messa al bando – finalmente in modo esplicito e giuridicamente vincolante – delle armi nucleari. Un momento storico, a cui anche l’Italia è chiamata a partecipare, nonostante lo scorso 27 ottobre abbia votato contro l’avvio di questo percorso, tra la delusione e lo sconcerto di numerose associazioni e attivisti della pace e del disarmo. La Risoluzione (denominata L.41) era stata comunque approvata dalle Nazioni Unite a larga maggioranza, con 123 paesi favorevoli, 38 contrari e 16 astenuti. Tra i contrari, inutile dirlo, vi sono le nazioni che posseggono ordigni nucleari, ovvero Stati Uniti, Russia, Gran Bretagna, Francia, Cina, Israele, India, Pakistan e Corea del Nord. Per quanto riguarda l’Italia, in teoria non sarebbe una nazione nucleare ma a seguito degli accordi del cosiddetto “Nuclear Sharing” in ambito NATO, il nostro paese ospita nel proprio territorio ordigni di tale natura: si tratta di bombe di proprietà degli Stati Uniti – paese che insieme alla Russia possiede il 90 per cento dell’arsenale nucleare mondiale.
In totale le bombe statunitensi dislocate in Europa sarebbero 150, schierate in cinque paesi: Belgio, Olanda, Germania, Turchia e, appunto, l’Italia, che ne ospiterebbe ben 40, suddivise tra la base di Aviano, in provincia di Pordenone (con 20 bombe) e quella di Ghedi, in provincia di Brescia (con 20 bombe). Non che ci siano mai state comunicazioni ufficiali da parte del governo italiano o di Washington. A rivelarlo, infatti, fu nel 2013 il Bulletin of the Atomic Scientists e in seguito la Federation of American Scientist (Fas), autorità in materia di armi nucleari, i cui report sono stati ripresi da diversi giornali nostrani, nonostante il tema non abbia mai fatto molto appeal presso i media e l’opinione pubblica italiana. La conferma arrivò anche da uno studio, incentrato sulla base di Ghedi, dell’esperto del Fas, Hans Kristensen, che cita in particolare due segni rivelatori: la presenza nella base del 704esimo Squadrone Munitions Support (Munss), unità della US Air Force che avrebbe il compito di proteggere e mantenere operative le 20 bombe nucleari B-61 presenti; e ancora la presenza, fotografata dai satelliti, dei “Nato Weapons Maintenance Trucks”, grandi camion militari progettati proprio per permettere la manutenzione delle bombe nucleari in loco.
Semplice “custodia” o c’è anche qualcosa di più? Le testate presenti in territorio italiano sarebbero le B-61, bombe nucleari all'idrogeno prodotte nell'epoca della guerra fredda, essenzialmente di due tipi: le B61-4, con potenze da 0.3 a 50 kiloton, e le B61-3 con potenze da 0.3 a 170 kiloton, ovvero 11 volte la carica dell'atomica che distrusse Hiroshima nel 1945. Potenti sì, ma obsolete, tanto che il Pentagono avrebbe avviato un programma di aggiornamento, con una nuova produzione da avviare a partire dal 2020. Le bombe le B-61, infatti, verranno sostituite con le nuove B61-12: ordigni devastanti e soprattutto precisi – al contrario delle versioni precedenti – capaci di penetrare in profondità nel sottosuolo e quindi di distruggere i bunker e le costruzioni sotterranee più resistenti. Queste bombe potranno essere caricate sugli F-35, i caccia ultramoderni – e ultracostosi – che anche il nostro governo ha deciso di acquistare nonostante le numerose proteste da parte della società civile. Ultimo ma non meno importante: secondo il Bulletin of Atomic Scientists anche i piloti delle forze aeree italiane sarebbero addestrati a missioni di attacco con armi nucleari Usa.
Gli attivisti e gli esperti sottolineano la pericolosità insita nell’ospitare sul proprio territorio degli ordigni così devastanti: primo, l’Italia potrebbe diventare uno dei primi bersagli in caso di rappresaglia nucleare in un eventuale confronto Usa/Russia; secondo, un arsenale di questo tipo potrebbe finire nel mirino di organizzazioni terroristiche. Non solo: in questo modo l’Italia starebbe violando il Trattato di non proliferazione, che impone di “non ricevere armi nucleari o il controllo diretto o indiretto di esse da nessuno” (senza menzionare il fatto che le B61-12, più che un semplice aggiornamento delle vecchie B-61, sembrerebbero essere proprio un nuovo tipo di arma). Peccato che il Trattato di non proliferazione, ratificato nel 1975 e firmato sia dal nostro paese sia dagli Stati Uniti, costituisca soltanto un divieto parziale, orientato a un progressivo smantellamento di tutti gli arsenali – di fatto mai avvenuto. Un divieto giuridico esplicito esiste solo per quanto riguarda armi come quelle biologiche e chimiche, o le mine antiuomo e le bombe a grappolo. Ed ecco che il nuovo trattato che ci si appresta ora a negoziare potrebbe cambiare questo stato di cose: “Per la prima volta, c’è la concreta possibilità di andare oltre la logica della deterrenza e della non proliferazione, ponendo le basi per un autentico processo di disarmo nucleare, che renda illegale – e non più solo immorale – l’uso, la minaccia d’uso, il possesso, la detenzione, e la costruzione di queste terribili armi di distruzione di massa” avevano scritto le organizzazioni Senzatomica e Rete Italiana per il Disarmo in una lettera inviata al Presidente del Consiglio Paolo Gentiloni e al Ministro degli Esteri Angelino Alfano, proprio per chiedere all’Italia di ritornare sulla propria decisione.
Così, se le speranze che l’Italia non si allinei alle posizioni americane restano esigue – la storia di sudditanza dal punto di vista militare, mascherata da impegni Nato, è lunga – il mondo guarda preoccupato alle tensioni internazionali, complice anche l’elezione di Donald Trump alla presidenza Usa. Non a caso, quest’anno le lancette del Doomsday Clock (l’Orologio dell’Apocalisse, creato nel 1947 dagli scienziati del Bulletin of the Atomic Scientists) sono state spostate e adesso mancano solo due minuti e mezzo alla mezzanotte, ovvero alla fine del mondo causata da vari fattori tra cui una guerra globale nucleare. Si tratta dell’avvicinamento più allarmante dal 1953, anno in cui gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica sperimentarono le loro prime armi termonucleari. “Nel 2017 riscontriamo un pericolo ancora maggiore, che necessita un'azione più urgente – scrivono gli esperti del Bullettin, tra cui 15 premi Nobel – Mancano due minuti e mezzo alla mezzanotte, il tempo stringe, il pericolo globale incombe. I saggi funzionari pubblici dovrebbero agire immediatamente, guidando l'umanità lontano dal baratro. Se non lo faranno, allora sono i saggi cittadini che devono farsi avanti e aprire la strada”.
Anna Toro

Laureata in filosofia e giornalista professionista dal 2008, divide attualmente le sue attività giornalistiche tra Unimondo (con cui collabora dal 2012) e la redazione di Osservatorio Iraq, dove si occupa di Afghanistan, Golfo, musica e Med Generation. In passato ha lavorato per diverse testate locali nella sua Sardegna, occupandosi di cronaca, con una pausa di un anno a Londra dove ha conseguito un diploma postlaurea, sempre in giornalismo. Nel 2010 si trasferisce definitivamente a Roma, città che adora, pur col suo caos e le sue contraddizioni. Proprio dalla Capitale trae la maggior parte degli spunti per i suoi articoli su Unimondo, principalmente su tematiche sociali, ambientali e di genere.