La pace di Papa Francesco contro la globalizzazione dell’indifferenza

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A primo acchito la proclamazione del diritto umano alla pace può sembrare una delle più grandi follie moderne. Se poi si sfoglia un giornale qualsiasi c’è di che sorridere al solo pensiero, un sorriso pronto a trasformarsi in ghigno dinanzi alla tragicità dei conflitti in corso in tutto il globo. La guerra civile siriana prosegue ininterrottamente dalla primavera del 2011, in Ucraina le vittime degli scontri tra le forze di Kiev e i ribelli indipendentisti ammontano a più di 4.300, la guerriglia tra palestinesi e israeliani si arricchisce ogni giorno di nuove ragioni di risentimento e vendetta, gli attacchi dei miliziani di Boko haram in Nigeria proseguono indisturbati, così come non c’è pace in Afghanistan, Iraq e Pakistan, i jihadisti dell’Isis continuano a spargere sangue e a issare bandiere nere contribuendo a innalzare timori verso il terrorismo di matrice islamica. E sono molti altri i conflitti in corso, tanto da aver indotto la scorsa estate Papa Francesco a parlare di “una terza guerra mondiale in corso”, seppure “a pezzi”: un’affermazione che nell’immediato ha acceso polemiche e dibattiti, ma che in seguito ha avuto una scarsa incidenza reale .

Che la pace non sia solo l’assenza di guerra è un’evidenza generalmente condivisa. Disporre dell’altro, prevalere su di lui, imporsi sulla sua vita o privarlo della stessa: anche queste relazioni configurano l’assenza di pace, seppur non chiamano in causa gli Stati ma i rapporti tra individui. È proprio a tale sfera, nella quale l’idea stessa di fratellanza sembra mancare del tutto, che Papa Bergoglio ha dedicato la 48° Giornata mondiale della pace del primo gennaio, con un augurio all’umanità intera per l’anno venturo. Non è semplice considerare gli uomini “non più schiavi ma fratelli”: per i cristiani sulla base della fede in una creazione “a immagine e somiglianza di Dio”, per i non credenti in ragione della condivisa accettazione di una verità auto-evidente che pone un’uguale dignità in ciascun essere umano, da salvaguardare nella sua unicità e irripetibilità. La schiavitù è stata abolita nel mondo in base alle norme del diritto internazionale: almeno formalmente perché, a dispetto di disposizioni giuridiche, accordi e strategie, ancora oggi sono milioni le persone private della libertà e costrette a vivere in condizioni assimilabili a quelle della schiavitù.

Sono i lavoratori “asserviti” in diversi settori, domestico e agricolo, nell’industria manifatturiera e in quella mineraria, in regola o in nero, in Stati con una legislazione che tutela il lavoratore ma disattesa, o in quelli in cui gli standard di tutela sono pressoché inesistenti. Sono schiavi i domestici impiegati nelle case dei Paesi del Golfo Persico, spesso torturati, stuprati, picchiati e “suicidati”. Lo sono parimenti i lavoratori stagionali africani descritti nel reportage di “The dark side of the Italian tomato” di Mathilde Auvillain e Stefano Liberti. Erano schiave le lavoratrici del tessile che hanno trovato la morte nel crollo del palazzo Rana Plaza a Dhaka in Bangladesh, dove prestavano la propria opera senza nessuna garanzia sociale o sanitaria e in barba alle regole e alle convenzioni internazionali in materia di diritto dei lavoratori. Sono schiavi anche quegli uomini, donne e bambini che estraggono coltan, oro e altri minerali preziosissimi per i mercati internazionali, pagando con la propria vita quel prezzo che gli acquirenti pagano alla loro povertà.

Sono i migranti vittime di persecuzioni, scappati dalla guerra o da condizioni di vita indegne. Sono schiavi i migranti detenuti per essere “identificati ed espulsi” in Centri dello Stato in condizioni disumane. È schiavo chi, per ripagare il prezzo di un trasporto illegale e disperato, deve vendere il proprio corpo. È altrettanto schiavo chi è ingannato, minacciato e torturato in un sistema di racket dei cui proventi certo non gode.

Lo sono le donne ancora sottoposte a una cultura sessista che le rende oggetto delle decisioni dell’uomo a cui sono affidate. Sono schiave le bambine fatte sposare nell’età della pubertà. Sono schiave quelle vedove trasmesse in successione ad un familiare alla morte del marito senza che abbiano il diritto di dare o meno il proprio consenso.

Sono i poveri, schiavi dell’accattonaggio, del traffico e del mercimonio per l’espianto degli organi, della violenza dei clan per ottenere tanto prestigio sociale quanto un tozzo di pane.

Povertà, sottosviluppo, mancata inclusione sociale, scarso accesso all’istruzione, corruzione, inesistenti opportunità di lavoro, conflitti armati, terrorismo sono tutti elementi che favoriscono una schiavitù moderna che appare oggi così inserita nel tessuto sociale da risultare pressoché invisibile, tanto è il disinteresse che circonda tali fenomeni. Una “globalizzazione dell’indifferenza”, come la definisce il Papa, che si alimenta attraverso ciascun individuo e che sembra quasi contraddire in termini il processo di interdipendenza che ha connesso politica, economia, tecnologia, aspetti sociali e culturali. Una globalizzazione della fraternità è possibile? Al nuovo anno l’ardua sentenza.

Miriam Rossi

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