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Il mercato nigeriano del sesso in Italia
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Il mercato del sesso, si sa, non conosce crisi. Neanche nell’Italia che in base ai dati produttivi e occupazionali risulta di anno in anno un po’ più povera. La presenza di donne straniere avviate alla prostituzione nel Belpaese continua a costituire una costante, di cui uno sguardo neppure troppo vigile ai marciapiedi delle periferie cittadine può dare un cocente riscontro. Una piaga, quella della tratta di queste schiave di età moderna, che segnala una altrettanto persistente e incisiva mancanza dell’Italia ad agire contro chi gestisce e gode i proventi di questo racket, al terzo posto per redditività al mondo solo dopo il traffico di droga e di armi. Inazione che il governo italiano paga in termini di reputazione nella lotta all’affermazione delle pari opportunità della donna e in critiche reiterate dai più alti organismi internazionali preposti al monitoraggio della condizione della donna nel Paese. Probabilmente le sanzioni e le condanne raccolte sono però di scarso valore se l’azione messa in campo dal governo italiano si limita di fatto a saltuarie retate di alcune prostitute in strada e talvolta al loro rimpatrio, e a multe emesse a clienti colti in flagranza di reato.
Un’effettiva politica contro la tratta delle donne appare necessariamente di più ben ampia portata, in quanto deve mirare a scardinare un sistema che parte da fuori l’Italia, dove avviene il loro reclutamento, e a stroncare i traffici economici del complesso e lungo percorso (che può durare anche anni) attraverso cui le ragazze scelte sono di fatto schiavizzate e portate sulle strade del ricco Occidente. La donna appare allora una merce preziosa su cui poter ampiamente lucrare; non si può dunque rischiare in questa fase di perderla, ad esempio in un naufragio nel tentativo di giungere illegalmente sulle coste europee. I viaggi devono essere sicuri, per l’incolumità della merce-donna e per impedire una cessione di proprietà, nel caso di un non improbabile blocco delle autorità di frontiera. Ben misera e irrilevante da questo punto di vista appare la pratica, peraltro scarsa, di arrestare le giovani donne e rimandarle “a casa loro”, oltre che di punire con una ammenda economica il cliente. Una vera e propria rivoluzione copernicana sarebbe necessaria, intesa a mettere al centro del dibattito la questione di genere e di rapporti tra i generi, che vada dunque a minare come “opzione naturale” quella di una prestazione sessuale della donna a pagamento.
Sono nigeriane un terzo delle donne straniere che si prostituiscono in Italia, la componente nazionale più alta, a cui si affiancano rumene, albanesi, bulgare, ucraine e moldave, in percentuali significative seppur minori. Un traffico quello nigeriano che appare diverso non solo per i numeri ma anche per la violenza psicologica che accompagna l’Odissea delle ragazze in arrivo in Europa. È il “Juju”, il giuramento sancito prima dell’avvio del viaggio con un ciuffo dei propri capelli, dei pezzi di unghia o dei peli pubici a disporre l’appartenenza della giovane donna alla “Madame”: da quel momento la vita della donna sarà in mano alla sua protettrice che deciderà del suo destino. È un caso unico in cui la tratta è governata interamente da donne. Se dunque è la coercizione fisica quella usata dagli sfruttatori verso le donne dall’Europa dell’Est, le prostitute nigeriane sono invece vincolate da questo giuramento dal respiro vudù: anche solo parlarne equivale a un tradimento, la denuncia e la fuga sono peraltro assolutamente da evitare per non incorrere in conseguenze che potrebbero toccare la salute propria o quella dei familiari.
Una percezione culturale distante anni luce da altre realtà, prima fra tutte quella degli operatori di strada o anche dei volontari che tentano di entrare in contatto con quel mondo, sulla strada, per fornire generi di conforto e farmaci, per mettere in guardia sui rischi di malattie a trasmissione sessuale, per dare un supporto informativo-legale sui documenti per essere in regola nel Paese e per poter usufruire di cure sanitarie, per offrire uno spaccato delle opportunità di formazione e di lavoro alternative. Un percorso che si preannuncia già su carta difficilissimo e che alla prova della notte presuppone il superamento di un muro di diffidenza e di profonda diversità.
Diffidenza perché le donne vittime di tratta, dal pronunciamento del giuramento e dall’allontanamento dalla propria casa, sono state prima di tutto vittime di fiducia malriposta e hanno subito continui tradimenti: in primis dalla reclutatrice, dagli intermediari che si occupano del trasferimento e di renderle “schiave docili”, certamente dalla Madame, e nondimeno dalle “colleghe” di strada che vigilano sul suo corretto operato. È stato l’intero sogno del lavoro e dell’emancipazione dalla povertà in Europa a tradirle. Come fidarsi dunque di una mano porta in gesto di fratellanza e di un sorriso sul volto?
Diversità perché secondo una percezione occidentale la posizione della vittima di tratta non può che ricoprire uno dei più bassi livelli di una scala sociale. Spiazza invece che nell’ottica delle prostitute nigeriane analoghi scalini siano occupati dalle donne che non hanno figli.
Il successo dell’azione di contatto e di affrancamento appare minato non solo da diffidenza e da differenza nella percezione della propria condizione e delle possibilità di emergere da essa. Appare difficile promuovere lavori alternativi che oltre a restituire la dignità a queste donne, le riscattino dal giuramento e forniscano loro una pari remunerazione per restituire a Madame i soldi dovuti per l’arrivo in Europa. Appaiono infatti loro preclusi i lavori qualificati, pagati maggiormente, per le scarse competenze e spesso il completo analfabetismo della maggioranza di queste ragazze. La conoscenza della lingua locale passa dunque attraverso l’alfabetizzazione di base, prorogando ulteriormente i tempi di ricerca effettiva di un lavoro e quindi di accesso a un reddito, sospeso al momento dell’interruzione dei rapporti con Madame. È questo il momento più critico del percorso di fuoriuscita dalla tratta e sono molte le ragazze che tornano in strada per non interrompere l’invio di una piccola rendita alla famiglia,oltre che nella convinzione di non potere trovare un’occupazione migliore.
Purtroppo molte sono le giovani che ancora oggi, nonostante le campagne di sensibilizzazione predisposte dal governo nigeriano che ha anche istituito un’apposita Agenzia Nazionale per la Proibizione della Tratta delle Persone (NAPTIP), decidono di avviarsi volontariamente verso il mestiere, all’interno di un sistema di tratta. Se il miraggio di una vita da schiave in Paesi più ricchi può sembrare preferibile alla povertà estrema vissuta in Nigeria, è reale l’incubo che si vive nei mesi (se non negli anni) di abusi nel viaggio fino in Europa e poi nel lungo periodo di riscatto del proprio debito.