Scacco alla Regina

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Immagine: Unsplash.com

Tutti pazzi per la miniserie la Regina degli Scacchi. O almeno così pare dal plauso pressoché unanime che sembra trasparire dai dibattiti sul web e dai numeri eccezionali delle visualizzazioni, ben 62 milioni dopo meno di un mese dalla sua messa in onda nell’ottobre di quest’anno. E dalla sua apparizione si accavallano gli interrogativi, non solo legati alla veridicità dei fatti raccontati quanto piuttosto al suo messaggio più profondo. È una serie che tratta della guerra fredda, ovvero dello scontro tra statunitensi e sovietici che toccò anche ambiti sportivi? O piuttosto la vicenda di Beth Harmon, la protagonista della storia, è una scusa per illustrare la società americana degli anni Sessanta? O ancora, il successo della scacchista è un tributo alla lotta per l’eguaglianza di genere in una delle tante dimensioni popolate di soli uomini? Insomma, in un’epoca di complottismi e di ricerca di significati nascosti ai più (e per lo più inesistenti), cosa c’è sotto la miniserie originale di Netflix?

Non vorrei deludere nessuno dei fautori di queste interpretazioni: la serie è tutto questo ma allo stesso tempo il tentativo di adottare una di queste chiavi di lettura appare fuorviante. Pur tentando di non spoilerare troppo è evidente che nell’ambientazione della vicenda la politica gioca un importante ruolo. I russi sono i campioni da battere, risultano i migliori nelle competizioni internazionali e, contrariamente agli americani, fanno gruppo nell’individuare una strategia di gioco vincente, anche in quello che appare uno sport individuale nel quale qualsiasi cittadino del mondo potrebbe primeggiare. Da una parte i manuali dei Maestri di scacchi russi e statunitensi, con le raccolte delle loro migliori giocate, dall’altra la richiesta di dedicare la possibile vittoria sportiva a una crociata contro il nemico sovietico che in due diverse occasioni la protagonista, la nostra Regina degli scacchi, non accoglie. Non lo fa con le donne della Christian Crusade, che vorrebbero una dichiarazione alla stampa contro l’ateismo marxista in cambio di un congruo sostegno economico alla sua partecipazione al campionato mondiale ospitato a Mosca. Il problema non sta nella religiosità o nell’assenza di religiosità di Beth, quanto nell’indifferenza della donna a tutto ciò che non è il gioco degli scacchi. Non lo fa neanche quando, da vittoriosa nel duello finale con il campione sovietico, è invitata ufficialmente alla Casa Bianca a stringere la mano al presidente degli Stati Uniti in una cerimonia ufficiale pianificata in chiave propagandistica nel duello bipolare Est-Ovest della guerra fredda. Anche allora la nostra scacchista opta per tornare a giocare, “scendendo dall’auto” che l’avrebbe consacrata a simbolo della possibile vittoria del nemico sovietico.

Se qualcuno poi avanza la bandiera della lotta al maschilismo, è vero che può ben attingere anche solo al titolo originale della serie “The Queen’s Gambit”, tradotto impropriamente in italiano senza curare il riferimento a una mossa di apertura scacchi, per l’appunto “il gambetto di donna”. Ma quello di Beth Harmon non è un percorso di emancipazione femminile. L’avere dall’altra parte della scacchiera un avversario uomo o donna non sembra avere per lei alcuna importanza, e la critica sollevata per l’assenza di altre scacchiste di importanza mondiale non scalfisce nemmeno in questo caso il disinteresse della donna per tutto ciò che è estraneo al tavolo da gioco. Suo malgrado è però un simbolo di emancipazione per aver sconfitto dei campioni di gioco uomini? Sì e no. No, se non vogliamo che la lotta per la parità di genere sia solo intesa come un percorso di progressivo (e saltuario) primeggiare delle donne negli affari, nelle competizioni e nei mestieri. Un’interpretazione decisamente limitante. Sì, se immaginiamo l’ispirazione che potrebbe generare su altri giovani: per le bambine nel potercela fare, per i bambini nel pensare che un buon lavoro come una vittoria sportiva sia una questione di studio, pratica, attitudine o anche genialità, e non un fattore legato al genere. Alcuni anni fa Astro-Samantha, alias dell’astronauta Samantha Cristoforetti, prima donna italiana nello spazio, ha generato profondo interesse, seppur talvolta rivolto più al suo essere donna che alla professionalità espressa: in ciò sta l’errore di interpretazione di una vicenda o della storia di una vita, che suo malgrado finisce per reiterare un modello di società non paritario tra uomo e donna. 

Che la serie poi voglia dare un affresco della società statunitense degli anni Sessanta è un fatto, anche se non dirompente ai fini della storia raccontata. La segregazione razziale nel rapporto di Beth con quella che risulta la sua unica amica, la distribuzione generale di psicofarmaci e calmanti nelle strutture per minori, ma anche l’omosessualità nella figura dell’amore non corrisposto di uno dei primi scacchisti incontrati in competizione, il consumo di alcool, la relazione tra coniugi sono tutti temi toccati a più riprese nella lunga pellicola della miniserie tv. 

E se tutti sono pazzi per questa serie, lo sono altrettanto le giovani leve degli scacchi e della dama che in Italia risultano in crescita e rigorosamente ripartiti in maniera equa per genere! Di scacchiere saranno inoltre piene le sacche di Babbo Natale, a quanto risulta da una recente rilevazione sui consumi degli italiani: non solo quelle tradizionali ma anche quelle virtuali inclusive di corsi online, se è vero che gli acquisti e le ricerche online di articoli legati al gioco degli scacchi hanno registrato un vero e proprio boom dall’apparizione della serie televisiva. Quello al commercio è davvero un collegamento certo che un prodotto di intrattenimento come la Regina degli scacchi ha sinora determinato. 

Miriam Rossi

Miriam Rossi (Viterbo, 1981). Dottoressa di ricerca in Storia delle Relazioni e delle Organizzazioni Internazionali, è esperta di diritti umani, ONU e politica internazionale. Dopo 10 anni nel mondo della ricerca e altrettanti nel settore della cooperazione internazionale (e aver imparato a fare formazione, progettazione e comunicazione), attualmente opera all'interno dell'Università degli studi di Trento per il più ampio trasferimento della conoscenza e del sapere scientifico.

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