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Lavoro minorile in Bolivia: scandalo o riscatto?
Giovani
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Con l’inizio del nuovo anno si tracciano bilanci e nuove prospettive. Una notizia particolarmente controversa è stata il riconoscimento legale del lavoro minorile a partire dei 10 anni, approvato a luglio nel nuovo codice dell’infanzia della Bolivia.
Il nuovo Codice consente il lavoro in proprio fra i 10 e i 12 anni, essenzialmente vincolato al contesto familiare, il lavoro dipendente fra i 12 e i 14 anni, con l’autorizzazione dei genitori e di organismi come l’ Ombusman dell’infanzia, e quello fra i 14 e i 18 nel rispetto di tutti i diritti lavorativi; fra i 10 e i 14 anni sarà consentito solo a patto che i bambini non sospendano gli studi.
In un contesto dove si stima che 850.000 bambini facciano già parte della forza lavoro, la nuova legge cerca di assicurare che i loro diritti siano protetti, invece che penalizzare o costringere clandestinamente coloro che hanno necessità di lavorare per aiutare le loro famiglie, come succede in Colombia e Peru.
Una legge che, secondo le parole del Vice presidente della Repubblica Garcia Linera, rappresenta “un giusto equilibrio” fra la realtà boliviana e i trattati internazionali in materia. “Sarebbe stato facile approvare una legge che è conforme alle leggi internazionali,” ha aggiunto, “ma che non si sarebbe potuta rispettare, se non fosse stata resa effettiva.” Invece, spiega Garcia Linera, abbiamo scelto di redigere “una legge che abbia come suo punto di partenza quello che abbiamo oggi e che delinei un percorso realistico e fattibile per cambiare la situazione lavorativa dei bambini che va oltre le convenzioni internazionali.”
Sono piccoli lustrascarpe, minatori, pulitori di lapidi, braccianti nelle fattorie familiari, strilloni che affollano le strade di Santa Cruz o Cochabamba o comunque nelle piccole zone di quell’economia sommersa che gli permette un sostegno familiare riconoscendo la loro dignita´. Sono i bambini boliviani che, per quanto giovani, hanno chiesto (ed ottenuto) a gran voce di poter lavorare e fin dal 2000 si sono organizzati nel “baby sindacato” Unione nazionale dei bambini/e lavoratori UNASBO.
Il percorso di una riforma costituzionale in senso “indigenista”
Nel 2008, in occasione della riforma costituzionale in senso “indigenista” voluta dal presidente Evo Morales, il movimento sociale dei bambini UNATSBO aveva ottenuto un notevole successo, ottenendo che la nuova Costituzione vietasse non il lavoro infantile in quanto tale ma solo le condizioni di sfruttamento in cui viene esercitato. Da una parte, quindi, esso veniva legittimato, dall’altra fortemente regolarizzato con la specificazione di 23 attività vietate ai ragazzi perché considerate pericolose o degradanti.
Jorge Domic, direttore Fondazione “La Paz”, mi spiega che “il lavoro minorile non può essere definito solo dal punto di vista della remunerazione. Il lavoro è un meccanismo di socializzazione che si articola con la vita quotidiana, anche dal punto di vista pedagogico. In questo senso la scuola è uno spazio di lavoro intellettuale e di apprendimento; lo studio non è separato dal lavoro”.
L’Unicef riconosce ai minori il diritto di decidere sulla propria vita quotidiana, distinguendo tra child labour – il lavoro che porta allo sfruttamento, cui è assolutamente contraria – e child work, il lavoro che non ostacola l’istruzione e consente al minore di partecipare all’economia famigliare. “I ragazzi hanno il diritto di lottare contro lo sfruttamento” – sottolinea Sandra Arellano, responsabile del settore “Proteccion” di Unicef Bolivia.
La reazione contraria degli organismi internazionali non si è fatta attendere imponendo al Governo boliviano di trovare un difficile compromesso tra il nuovo codice boliviano, il trattato dell’Ilo che vieta l’impiego di ragazzi e ragazze sotto i 15 anni di età.
Le organizzazioni non governative Anti-slavery international, Global March, Human rights watch, avevano inviato già a fine gennaio 2014 una lettera aperta al presidente della Bolivia Evo Morales per metterlo in guardia dai rischi rappresentati, secondo loro, da un abbassamento dell’età minima consentita per cominciare a lavorare: “Se a bambini di 12 anni viene permesso di lavorare, saranno esclusi dalla possibilità di avere un’istruzione durante gli anni migliori, quelli formativi. Il rischio è di entrare in una spirale di povertà e analfabetismo al quale è difficile porre fine”.
Questa rottura radicale dell’universalismo dei diritti umani fa parte del socialismo comunitario, come spiega cancelliere boliviano e filosofo aymara David Choquehuanca:“i popoli Aymara non si preoccupano quando i bambini lavorano nella comunità andina. I bambini devono lavorare perché assumono responsabilità fin dalla tenera età. L’Occidente afferma che i bambini non devono lavorare. Noi non siamo d’accordo perché il lavoro è felicità perché contribuisce al benessere della comunità, il lavoro non è sfruttamento”.
Dove nasce questa chiara contrapposizione con l’Organizzazione Internazionale del lavoro e il modello neoliberale?
Per rispondere a questa domanda bisogna partire dalla storia recente del Paese. Considerata la nazione più povera dell'America del Sud, la Bolivia è cresciuta del 6,5% nel 2013, il miglior risultato negli ultimi tre decenni. Tra il 2007 e il 2012, la crescita annuale del PIL è stata del 4,8%.
Il Presidente Evo Morales, primo presidente indigeno del Paese sudamericano ex sindacalista cocalero, ha ottenuto il suo terzo trionfo nelle elezioni presidenziali dell’ottobre 2014 guadagnando il 61% dei voti.
Da quanto è salito al potere, nel 2006, la nazionalizzazione delle risorse naturali, connesso con il boom dei prezzi delle materie prime, ha aumentato di nove volte i proventi delle esportazioni nazionali e la Bolivia ha accumulato 15,5 miliardi di dollari di riserve.Morales, 55 anni, ha utilizzato questi proventi per creare sussidi per i bambini in età scolare e pensionati. Mezzo milione di persone è uscito dalla povertà.
Finora Morales ha speso bene i fondi a sua disposizione, e per qualunque successore sarà molto difficile abbandonare questo percorso di “investimento sociale”. Ha anche dato alla maggioranza indigena voce in capitolo nelle decisioni politiche a livello nazionale.
Va sottolineata la sua capacità di ascoltare le esigenze del popolo boliviano indio – di gran lunga maggioritario – che sino ad allora era stato escluso da qualsiasi progetto d’inclusione prima del suo avvento al potere. Sino ad una ventina d’anni fa nella zona sud di La Paz, quella dei ricchi, era quasi abitudine che i commessi di negozi e supermercati servissero prima i clienti “bianchi” e solo dopo gli indigeni.
Questa rottura decoloniale e opposizione al razzismo si manifesta anche nel riconoscimento politico dei movimenti dei bambini lavoratori.
Il 23 dicembre 2013 Evo Morales ha invitato al Palazzo Presidenziale i rappresentanti di UNASBO (che annovera 10.000 membri) affermando che i bambini lavoratori sono“una coscienza sociale per il loro appoggio all’economia famigliare”. Il presidente Evo ha fatto eco alle proposte dei NATs, (Niños y Adolescentes Trabajadores nell’acronimo spagnolo) denunciato anche le ONG che strumentalizzano per scopi finanziari il tema del lavoro minorile, attraverso una nota diffusa dalla Camera dei Deputati “Algunas ONGs de Bolivia están manipulando a niños con fines políticos y financieros” .
Concludendo, la Costituzione boliviana disegna la costruzione di uno Stato “unitario, sociale e di diritto plurinazionale, libero e indipendente, che offre ascolto a tutti i movimenti sociali sulle scelte riguardanti l’educazione, la salute e la casa”.
Malgrado l’incomprensione di organismi internazionali – a volte ostaggio di visioni eurocentriche del mondo, il laboratorio boliviano del “Governo dei Movimenti Sociali” sta costruendo un paradigma controcorrente di inclusione e Buen Vivir riconoscendo il principio di autodeterminazione dei popoli e i diritti economici, sociali e culturali, temi che il Presidente Evo Morales affronterà oggi, 21 gennaio, per l’insediamento del suo terzo mandato costituzionale.