La schiavitù della gravidanza

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Foto: Canva.com

È di pochi giorni fa la decisione di San Marino di depenalizzare l’interruzione volontaria di gravidanza. Entro sei mesi dal 27 settembre, il governo dovrà approvare una legge che vada verso l’opinione espressa dal 77 % della popolazione al referendum. La normativa vigente ad oggi prevedeva una reclusione fino a 6 anni; con la nuova legge invece, sarà possibile interrompere la gravidanza entro la dodicesima settimana, ed anche successivamente qualora la vita della donna sia in pericolo o vi siano malformazioni nel feto. 

Cosa c’è dietro l’interruzione di gravidanza che continua a far discutere? 

Già il fatto che utilizziamo questa espressione asettica mostra chiaramente il bisogno di prendere le distanze da un tema che presenta dei risvolti emotivi di rilievo. Lo sanno bene i gruppi pro-vita, che parlano sempre di bambini e mai di feti o embrioni; a cui vorrebbero opporre, dialetticamente, i pro-morte. Il che suona quanto meno grottesco: per fortuna il linguaggio è creativo, ed in realtà si tratta di essere favorevoli alla scelta, non alla morte - pro-choice, per l’appunto.

Una digressione linguistica che ci porta al nocciolo della questione: a chi spetta la possibilità di scegliere se una donna deve diventare madre o meno? O, se cambiamo il soggetto: a chi spetta la possibilità di scegliere se una persona può nascere o meno?  

Può uno Stato obbligare una donna a partorire, se lei non lo vuole?

Perché come società siamo così ossessionati da questo tema, tanto da tirarlo fuori ciclicamente riportando come ogni singolo Paese si stia muovendo in proposito? In Italia la legge c’è da 43 anni: a chi giova continuare a metterla in discussione, e perché farlo?

In molti Paesi il dibattito non sussiste perché le donne non possono scegliere, sono obbligate a diventare madri – pena la galera (se sopravvivono all’aborto illegale, ça va sans dire).

Credo che solo nei Paesi del nord Europa il dibattito non sussista perché le donne possono scegliere in autonomia, da esseri adulti pienamente consapevoli ed in grado di intendere e di volere.

Nei Paesi dove il dibattito c’è, come in Italia, la discussione spesso si concentra sul decidere se il feto sia un bambino o meno; e di conseguenza se l’interruzione di gravidanza sia un omicidio o meno. Ora: a livello medico, il feto si considera perfettamente formato (e quindi, bambino) tra le settimane 36 e 40, quando può sopravvivere fuori dall’utero. Ma anche se non può vivere fuori dall’utero, può il feto sentire emozioni, o provare dolore? Può aver voglia di vivere questo feto, al netto della biologia che lo porta a vivere in automatico, ed essere considerato una persona? La sua eventuale voglia di vivere – che forse c’è o forse non c’è – è più o meno importante del desiderio della donna di diventare o non diventare madre?

La biologia è un destino, oppure no? 

Il buon senso porterebbe a dire che, tra un’opzione di cui non si è certi (il desiderio di vivere o meno del feto), ed un’opzione certa (il desiderio di diventare madre o meno della donna) si dovrebbe tendere verso la certezza, almeno a livello legale e di società: lasciando poi libertà di scelta alla singola donna che si trova in questa situazione. Anche il potenziale futuro padre dovrebbe farsi da parte: la gravidanza e il parto possono avere conseguenze irreversibili sulla salute della donna, e solo lei può decidere della propria salute. 

Anche così, esercitare il diritto ad interrompere la gravidanza è possibile solo entro le prime settimane – poi la possibilità viene ristretta ai casi in cui il feto abbia delle malformazioni, o sia a rischio la salute psicofisica della donna. Qui ogni Paese stabilisce tempistiche diverse; abbiamo visto San Marino. In Texas, dove da poco è stata approvata e poi sospesa da un giudice federale, una legge che di fatto nega il diritto ad interrompere la gravidanza, il limite è fissato alla sesta settimana. Ora: ci vogliono minimo 4-5 settimane per rendersi conto che si è in dolce attesa; quando la donna se ne accorge, deve quindi decidere se diventare madre o meno nel giro di un paio di giorni, perché poi deve trovare una clinica che possa operarla subito. Prendere una decisione simile in tempi ristretti desta legittimamente più di una perplessità. In più ci sono i casi particolari, non necessariamente rari: prendiamo una ragazza minorenne ed incinta. Vuole interrompere la gravidanza ma ha bisogno del permesso dei genitori, che non sempre sono d’accordo. Se non sono d’accordo bisogna andare dal giudice. Mettiamo pure che il giudice sia favorevole, a quel punto il termine delle 6 settimane sarà comunque già scaduto. Quindi?

In Italia la legge formalmente permette l’interruzione di gravidanza entro i 90 giorni; e anche oltre, ove sussistano fondate ragioni terapeutiche. Ma qual è il quadro reale della situazione

Il più importante aspetto da segnalare è che, a causa dell’altissimo tasso di obiezione di coscienza da parte di medici ed anestesisti (tasso peraltro in crescita costante), vi è un’evidente disparità di accesso all’interruzione di gravidanza a livello locale e regionale. Ora: è corretto che all’interno di una struttura pubblica deputata a garantire i diritti dei e delle cittadine operi personale che tali diritti non li vuole rispettare? In Finlandia, Svezia, Svizzera, Lituania e Lettonia l’obiezione di coscienza in questi casi non è permessa. Fatto sta che la Commissione d’Europa ha condannato l’Italia sia nel 2013 che nel 2015. 

Di quali numeri stiamo parlando? Il tasso di obiettori a livello nazionale è del 69 % per i ginecologi e del 46,3 % per gli anestesisti. Il Molise e la Provincia Autonoma di Bolzano presentano i tassi più alti per quanto riguarda le obiezioni dei ginecologi: rispettivamente 92,3 % e 87,2 %. I tassi più bassi si registrano in Valle d’Aosta (7,7 %) ed Emilia-Romagna (52,5 %). Le altre regioni spaziano dal 52,8 % della Provincia Autonoma di Trento (comunque uno su due) e l’82,7 % della Sicilia (più di tre su quattro). 

Se obbligare una donna a partorire – nei fatti - non è una violenza, cosa lo è?

Novella Benedetti

Giornalista pubblicista; appassionata di lingue e linguistica; attualmente dottoranda in traduzione, genere, e studi culturali presso UVic-UCC. Lavora come consulente linguistica collaborando con varie realtà del pubblico e del privato (corsi classici, percorsi di coaching linguistico, valutazioni di livello) e nel tempo libero ha creato Yoga Hub Trento – una piattaforma che riunisce varie professionalità legate al benessere personale. È insegnante certificata di yoga.

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