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La poesia contemporanea e i primi poeti nati negli anni '80 e '90
Giovani
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Adriano Cataldo - Foto di Diletta Toti ®
Ho voluto fare una chiacchiera sulla poesia contemporanea con Adriano Cataldo, una figura molto presente nelle serate di poesia orale e performativa in Trentino. Ho voluto parlare con lui perché anche lui come me è nato negli anni Ottanta e, sebbene la poesia contemporanea abbraccia autori nati anche precedentemente, è interessante iniziare a guardare alla neonata distanza che sta differenziano in stile e contenuti i poeti nati negli anni Ottanta da quelli che, invece, hanno vissuto la loro adolescenza durante quegli anni.
Adriano è nato in un paese che non esiste più, nella Germania dell’Ovest: “io sono figlio e nipote di migranti italiani in Germania e quando avevo sei anni ci siamo trasferiti in Italia e questo”, dice, “è stato un primo modo di fare esperienza delle parole in un mondo ampliato e complesso.”
Anche lui è un’anima incarnata in un’epoca dove tutto, comprando, era possibile e dove tutto, buttando, si poteva comprare di nuovo. Nonostante fosse stato un periodo dove la poesia non era della gente e un mondo dove il terreno non era fertile per fare esperienze esistenziali attraverso la poesia, comunque, questa, senza mai morire del tutto, continuava a germogliare sotto il tappeto di qualche salotto.
“Più o meno come altre persone”, racconta Adriano, “anch’io ho iniziato a scrivere versi nell’adolescenza, come succede a tanti”, afferma, e poi spiega: “quello che scrivevo erano delle notazioni di sensibilità le quali, come ha detto Edoardo Sanguineti, non erano delle poesie compiute, ma dei pensieri”, degli stati d’animo in qualche modo trasformati in un frammento cartaceo o che andavano a invadere lo spazio bianco di un documento nello schermo di un PC. “Poi”, continua a parlare, “la cosa si è evoluta con l’incontro alle superiori della poesia del Novecento e del secondo Novecento”.
L’esperienza dell’intervistato è interessante perché comune a molti della sua generazione: infatti per un gran numero di persone la poesia rappresenta, per dirla come l’ha detta lui, “una passione coltivata in modo anarchico”.
Quello che sta accadendo - e questa è una mia maniera di vedere le cose - è che la poesia, almeno in Italia, sta uscendo allo scoperto: non è più una vergona gridare al mondo che parte del proprio tempo lo si investe in qualcosa che ha il peso dell’aria. Che la propria mattinata o la propria serata la si spende per cantare alla vita. Questa mia opinione è altresì, devo confessare, una sensazione condivisa, non solo con Andriano, ma anche con altri poeti e lettori di poesia “dei nostri anni”.
Occuparsi di poesia – senza distinzione fra l’atto di scriverla o di leggerla – è una scelta che implica una certa dose di coraggio perché richiede di fermarsi per assaporare bellezza, di fermarsi per accorgersi che la bellezza è fatta anche dal volo di una farfalla o dal riflesso del sole in un palazzo di vetro e di comprendere, mettendo nelle mani di Dio persino la propria pelle, che il ruolo di questa bellezza è quello di ripulire il campo delle infinite possibilità di chi la vuole cogliere.
La poesia contemporanea, come l’ha definita Cataldo, è anche “una trasmissione di idee” la quale viene spesso vissuta da uomini e donne che hanno coltivato questa passione in modo autonomo “senza”, per usare ancora una volta le parole di chi parla, “uno studio strutturato alle spalle”. Non è solo questione di metrica, di devozione analitica alla divinità italiana formata da ventuno lettere, ma il bisogno di invocarla per, e qui uso le parole di Davide Rondoni, “mettere a fuoco la vita”; e poi, in un secondo momento, decidere se e come intervenire per migliorare anche la tecnica.
“Se si guarda ai poeti che oggi hanno trenta o quarant’anni”, questi, ci racconta il giovane appassionato di poesia rifacendosi a un’espressione dell’autrice Elisa Donzelli, “formano una non-generazione perché”, spiega quanto appena detto, “rispetto ai poeti precedenti, quelli nati negli Ottanta e dopo hanno una situazione storica alle spalle meno definita” e, di conseguenza, una complessità maggiore nel capire chi sono.
“Chi è nato prima di questi anni”, continua Adriano a spiegare con sentimento, “chi si è formato negli anni Ottanta e Novanta, è arrivato all’età adolescenziale con una maggior consapevolezza del periodo storico di cui è stato figlio: un Novecento fatto da due grandi blocchi, ossia le Guerre”, le quali, guardandole come meri elementi di orientamento storico-temporale, hanno tracciato i bordi degli scenari dentro i quali colorare futuri. Successivamente si è un po’ “persa questa bussola”, soprattutto perché nel frattempo sono intervenuti altri fenomeni, “come ad esempio l’avvento della tecnologia” che, anteponendosi al senso di comunità e dunque alla costruzione di luoghi dove parlare per condividere idee, ha contribuito all’avanzamento di una vita dove l’attenzione è stata posta, prima di ogni altra entità, sull’individuo.
Questa complessità, o meglio, questa progressiva cancellazione delle linee mobili che creavano insiemi di apparenze sociali, nella definizione della “generazione degli Ottanta” è lampante, e questo, inevitabilmente si riflette anche nella poesia, sia parlando di contenuti sia del modo in cui essi vengono espressi, i quali - a mio avviso ma non solo - sono piuttosto complessi, tanto che, a volte, al fine di far comprendere il contesto a chi legge, è necessario una spiegazione da parte del poeta a sostegno dei suoi stessi versi.
“Fra i cinque sensi quello più usato nella poesia contemporanea è sicuramente la vista”, afferma Cataldo, e questo è un altro punto importante per comprendere la qualità della poesia contemporanea: un conto è riuscire a costruire immagini con le parole dove in tanti, leggendole, riescono a guardarsi. Un'altra cosa invece è fornire immagini complesse, sfuocate, agli occhi di tanti difficili da capire, immagini, in finale, scariche di forza empatica.
Nel senso della vista, insomma, si nasconde anche una tragedia del nostro tempo perché, come insegna il filosofo Umberto Galimberti: “siamo passati dalla civiltà della scrittura alla civiltà dell’immagine”, significa, “che abbiamo perso il contatto con la parola”, e questo, spiega il professore, “determina un assopimento del nostro cervello.” Avendo davanti prima l’immagine della parola, il cervello fa un passaggio in meno: non traduce più la grafia per arrivare all’immagine che essa rappresenta, così, cancellando un simile lavoro di traduzione, il cervello si indebolisce. E va da sé che con la regressione di esso, si impoverisce anche la capacità di produrre parola, dunque pensiero.
Le complessità sul cammino della poesia contemporanea, riprendendo le parole di Adriano, “sono visibili anche nel modo di divulgarla: c’è un notevole sfarinamento nelle esperienze poetiche”, dice, “quelle che riproducono poesia facendola restare su supporto cartaceo o digitale e chi tende a fare solo poesia orale”. Sono due fazioni, almeno ad oggi, “controproducenti perché non c’è nessuna compenetrazione”. E tutto questo sta accadendo in virtù di una torsione verso l’individuo iniziata negli anni Ottanta.
Dove stiamo andando non si sa, né si può affermarlo con sicurezza, quello che siamo però è nelle nostre mani perché abbiamo la possibilità di semplificare la complessità nella quale ci troviamo e questo è fattibile solo risolvendo chi siamo, dunque impegnandoci a sconfiggere noi stessi, per aprirci di conseguenza alla vita, e riuscire così a capirla. E questo, tutta questa impresa, che pare così grande ma ha la stessa pesantezza di due ali di una mosca, può essere sostenuta anche – ma io direi soprattutto – dalla poesia.
Francesca Bottari

Sono nata a Cles il 15 settembre 1984. Dopo essermi laureata in Lingue e Culture dell’Asia Orientale a Venezia, ho vissuto in Cina e in altre nazioni. In passato mi sono occupata di giornalismo e di inchieste. Oggi vivo a Bassano del Grappa, dove ogni giorno mi alleno a vivere scrivendo poesia: francescabottari.it