Frammenti d’Asia: il Vietnam

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Foto: M. Canapini ®

La lingua è dolce, si fa musica rispetto ai dialetti lasciati in Cina dopo interminabili odissee ferroviarie. I contadini, la testa riparata dal Nòn Là (cappello tradizionale a punta), spuntano dai campi e risaie in maniera sparpagliata. Si allarga un cielo azzurro, limpido, esteso. Hanoi, al primo impatto, appare come la mecca dei saccopelisti, ingabbiati tutti dentro agli stessi ostelli, i quali offrono più o meno le stesse cose essenziali: WIFI gratuito, birra fresca e letto a soli cinque dollari a notte. Le mete più gettonate - si raccomanda il receptionist glabro - sono gli altopiani del Nord alla ricerca di mitiche tribù indigene o la baia di Halong, nell’Est, per scorribande in barca a vela tra 3.000 e più isole di granito. Parecchi anfratti dalle luci soffuse offrono alcool a pochi centesimi, tatuaggi tradizionali, sesso estremo, mettendo in campo una basilare bulimia da shopping. Una bimba dalle trecce nere mi regala una mela, rotonda e gialla, a pochi passi dallo spartitraffico che vomita motorini e scooter deliranti. Scambio due parole con un ragazzotto dai denti sporgenti e gli occhi acquitrinosi, conosciuto sotto un albero: “La mia famiglia non poteva pagarmi gli studi, così sono emigrato qui ad Hanoi per lavorare. Lavo i piatti e pulisco le stanze di un ostello. Il ritmo è massacrante, dalle 6.00 alle 23.30 ma almeno, per via dei tanti turisti, posso imparare un po’ di inglese e sperare di trasferirmi all’estero in futuro”. Le viuzze sono intasate da ubriachi, galline storte, maiali legati con fascine d’erba, bonsai, fusti di birra. Divampano, in serata, fuocherelli bassi in aiuole grezze. Nugoli di mosche. Per raggiungere sani e salvi l’altra sponda del marciapiede è consigliabile accollarsi a qualche pedone locale, copiandone passi e movenze.

Nella notte un orrendo temporale scuote le antenne delle case, piegandole a metà. Tre signore dagli abiti fradici recitano preghiere srotolando una sorta di amuleto. Una di esse sbatte ritmicamente un pezzo di legno contro una campanella, scandendo il tempo della litania. Ai loro piedi è posto un cesto in vimine con riso, spiedini di carne, frutta e incensi depositati sul fondo: tutto distribuito come offerta agli spiriti. “Si tratta di un rituale buddhista. Questo è il mese in cui alcuni popoli del sud est asiatico celebrano le anime dei defunti, provvisoriamente in cammino nel mondo terreno. È una forma di esoterismo acclamata” dichiara John, inglese, al riparo sotto un cornicione di cemento. I tassisti del vicinato, molto più pragmatici, attuano le solite, piccole truffe giornaliere ai viandanti giunti d’oltreoceano. I canti popolari e le marchette comuniste sparate a gran volume dagli auto-parlanti in grembo ai lampioni paiono enfatizzare la classe politica al governoPer giorni mi rifugio in una bettola che odora di pesce grigliato; i gestori hanno disimparato a ridere e i gechi scorrazzano tra i pentoloni neri della cucina. Assomigliano ad una marmaglia di bambini che sotto al sole, da ore, palleggia con una sfera di fibre vegetali: la maestra del Takraw, il gioco tradizionale forse più in voga dal Vietnam alla Birmania. Alcune zone vicinissime ai porticcioli marittimi sono disboscate dal napalm (sganciato a ettolitri durante la guerra), altre mangiate dalla sabbia finissima. Donnine succinte sulla porta di localini bui mettono in mostra cosce e sorrisi ruffiani. L’asfalto è rovente. 

Il faccione impassibile di Ho Chi Min svetta in ogni aula scolastica. Le strutture pubbliche hanno le fattezze tipiche dei casermoni comunisti: ampie, massicce, rettangolari. Raramente spiccano quadri di Lenin o Marx, allineati su qualche parete ormai fatiscente. Il minuto Tran Thi, per via di una malformazione congenita, ha mani come polpette, un grumo di carne privo di dita e ossa. Il bimbo sembra non disperarsene, scrive con precisione utilizzando il righello con destrezza. Gli amichetti, per via della barba folta in costante crescita si rivolgono a me col termine Ong, appellativo usato per denominare un nonno. Percorriamo sentieri ghiaiosi a bordo di un motorino. In un boschetto rigoglioso una vecchia signora intreccia foglie di bambù di fronte l’abitazione. Abbiamo abbandonato i circuiti conosciuti, comunemente battuti dai villeggianti. Solo indicazioni stradali in vietnamita e conversazioni dialettali. Il leggendario Mekong, fiume più lungo di tutta l’Indocina (detto anche fiume dei nove draghi per via degli affluenti), è gonfio di detriti e fango. Appare minaccioso, autoritario e scorgendone l’altra sponda non si può che provare mistero, come una terra inesplorata priva d’ombre. La vegetazione è primordiale. Il battello che non accenna a partire è una barchetta di assi fradice e malandate. Si popola in un secondo: uomini taciturni, pescatori dalla faccia scottata, venditori di granchi, polli da combattimento, pannocchie imbustate, biglietti della lotteria venduti da mani salsedinose. 

Nel distretto di Tan Phu Dong, provincia di Tien Giang, un mucchio di alunni gioca a bolle di sapone nel cortile della scuola. Un uomo corpulento e sudaticcio con baffetti da messicano stringe un gallo sottobraccio, ci offre un pacchetto di sigarette chiedendo a gesti di seguirlo nel fitto della foresta. La cappa di caldo dopo la tempesta piega le gambe e smorza il fiato. “Noi vietnamiti siamo molto ospitali, soprattutto qui, lontano dalle città. Se ti perdi puoi contare sul nostro aiuto”. L’uomo di nome Bao taglia in due col machete dei meloni gialli, consigliandoci di berne il succo e poi raccoglierne l’interno, molle e gustoso come gelatina. Spiega poi che le famiglie locali sopravvivono grazie a piccole forme di micro-credito, prestandosi attrezzi e animali, solidarietà confermata poi da una donna: “Appena il nostro status migliora chiediamo al governo di mandare a scuola i nostri figli, poi di rinvestire sul mercato.  La vita qui è molto dura: clima secco, acqua piovana risicata, i mariti spesso malati… noi donne lavoriamo come pazze per un tozzo di pane”. La donna afferra una papera per l’ala, lanciandola bruscamente al di là di uno steccato. I nativi coltivano anche alberi di limone, ma nei giardini, oltre agli aspri frutti, sono conficcate tante lapidi colorate, che paiono oscillare al suono di un remoto karaoke sparato da nuove capanne. Saluto il Mekong, da lontano, senza disturbarlo minimamente. 

Saigon. Frutti di mare, birra, involtini di insalata. Tao lavora come operatore per conto di una associazione norvegese che si occupa di disabilità: “Crediamo che la disabilità non sia una malattia. Ogni persona disabile ha gli stessi diritti d’inclusione nella società di un normodotato. Ho lavorato anche con bambini affetti da agente arancio ma non ho mai voluto specificare la diagnosi. I principi del mio lavoro sono la dignità, l’equità, l’uguaglianza”. La città è in fermento. Nelle panchine del parco pubblico una ventina di prostitute dalla gonna attillata ammiccano ai giovani saccopelisti.Un indiano è tentato, riflette, poi ridendo si tuffa sulla preda: una donna dai fianchi larghi, tante zampe di gallina attorno agli occhi e una bella dosa di cipria sugli zigomi. Un risciò si avvicina con garbo: “Ho una bella ragazza giovane tutta per te… ci sono stanze in affitto qui vicino”. Strizzata d’occhio. Denigro. L’uomo ripiega sulle droghe: “Lsd, opium, maluana Sir… maluana”. Niente da fare. Mangio una zuppa assieme a Nguyen Ngoc Tram Anh, la quale, come etimologicamente indicato dal nome, è una ragazza educata e solare. Ha scelto di studiare la lingua italiana all’università per ampliare i propri orizzonti culturali e vedere almeno una volta nella vita il mitico Stivale. “Nella nostra cultura ci vogliono cinque colori e cinque gusti per raggiungere l’armonia tra yin e yang. Nero, bianco, verde, rosso, giallo. Pepe, noodles, verdure, peperoncino, pollo… un piatto completo! Ecco perché i camerieri aggiungono sempre vasetti variopinti alla portata principale - racconta Nguyen, ingurgitando un piatto di Pho Ga - cinque gusti come salato, dolce, acido, piccante, pesante”. Seduto su un muretto un tassista smagrito buca le sue vene sottili con una dose massiccia di eroina. Mi guarda disinvolto, senza anima, continuando l’ascesa in un mondo che non conosco. 

Matthias Canapini

Matthias Canapini è nato nel 1992 a Fano. Viaggia a passo lento per raccontare storie con taccuino e macchina fotografica. Dal 2015 ha pubblicato "Verso Est", "Eurasia Express", "Il volto dell'altro", "Terra e dissenso" (Prospero Editore) e "Il passo dell'acero rosso" (Aras Edizioni).

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