Donne e guerra fanno rima con terra

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C’è un fattore che consideriamo raramente quando parliamo di ambiente e di ecologia.

Ma ecco, un inizio con la parola sbagliata. Perché fattore è maschile singolare. E quel valore aggiunto da evidenziare oggi è un femminile plurale. Meglio ancora i valori sono tanti, tanti quanti le donne servitrici della terra, costruttrici di ponti e raccoglitrici di semi. Donne che riforestano aree violentate dalla deforestazione e proteggono terre martoriate dal profitto ma ignorate per il potenziale di sopravvivenza e di vita che custodiscono. Il volto più noto tra queste ecoguerriere è probabilmente il suo, red bindi in fronte e sorriso rotondo, Vandana Shiva. Ma lei, si sa, è la spettacolare punta di un iceberg di migliaia di altre donne che difendono la vita come sole sanno fare, la vita nelle sue forme primordiali e a volte scontate quali l’aria, l’acqua, il suolo. Non parliamo solo delle attiviste nel cui esempio ha innestato i propri germogli il movimento Chipko, di quelle “martiri verdi” della comunità Bishnoi (Rajastan) che hanno sacrificato le loro vite abbracciando alberi considerati sacri (ma non lo sono poi tutti, ognuno a suo modo?) per salvarli dall’abbattimento.

Parliamo anche di tutte le donne tessitrici di legami comunitari, in testa alle manifestazioni o decentrate ciascuna nel quotidiano delle proprie battaglie, strette da legami orizzontali che non appiattiscono le specificità dei territori sotto il peso di gerarchie verticali. Di loro ci si dovrà ricordare una volta in più anche in vista dell’avvicinarsi dell’Expo di Milano, perché le foreste non procurano reddito, non sono miniere di legname da cui ricavare introiti, bensì indispensabili distese che mantengono l’equilibrio delle condizioni climatiche e trattengono il suolo dallo sgretolarsi, preservando il territorio da inondazioni e siccità e garantendo una costante riserva di frutti per i momenti in cui il cibo scarseggia. Insomma, sono le foreste ad assolvere l’imprescindibile compito di proteggere l’ecosistema.

E a ergersi come alberi fieri sono proprio le donne, che costringono i governi a fare retromarcia sulla deforestazione (ad es. in Himalaya, 1981), che mettono a tacere l’arroganza delle grandi multinazionali (ad es. in Kerala, 2004), che affrontano le tragedie con la compostezza e la determinazione di chi deve proteggere il futuro dei propri figli (ad es. Bhopal, riabilitazioni per disabilità causate da pesticidi).

Donne visionarie, scienziate senza riviste né convegni, osservatrici preziose dei cicli della vita e dello scempio umano. Donne che si battono contro l’appropriazione indebita di beni comuni, come ad esempio le proprietà dell’albero di Neem di controllare insetti nocivi e malattie in agricoltura. Nel 1994 l’uso del Neem fu coperto da brevetto dagli Stati Uniti, ma fu proprio grazie al taciuto ma non tacito lavoro di donne come Magda Alvoet e Linda Bullard che il brevetto venne successivamente disconosciuto perché “biopiratato”.

La domanda è impossibile evitarla: perché? Perché queste donne? Per radici antiche, perché per anni e anni e perché spesso ancora oggi sono loro a occuparsi di acqua, salute e cibo per gli altri prima ancora che per sé? Sono donne che provvedono nel senso più autentico della parola, che vedono prima, davanti, che offrono il loro sguardo lungimirante eppure spesso ignorato a un’economia maschia come lo è stata (o lo è ancora?) la scienza, che segue logiche altre, dentro confini produttivi artificiali quando non virtuali – pur se con conseguenze gravemente reali. Scomparsa dell’acqua e delle foreste, diffondersi di malattie e di tossine, veleni che minacciano la vita… e donne che danno uno scossone alla società, uno scrollone perché non si dimentichi di perseguire consapevolezza, di proteggere la terra come una casa. E Vandana Shiva lo sottolinea bene, ricordando che la parola ecologia e la parola economia hanno radice comune (radice, non a caso): oikos, casa appunto. Una casa che non segue comandi unidirezionali ma che è un sistema, fluido di relazioni, chimiche e alchimie. E spesso sono proprio le donne a farle rivivere nella creazione di alternative e di opportunità che difendono biodiversità ed ecologia: non è dunque affatto un caso che le fattorie familiari a partecipazione femminile forniscano il 75% del cibo mangiato nel mondo.

E allora, anche nel silenzio dell’economia globale, globalizzata e glorificata da dei senza altari, rendiamo omaggio alle migliaia di donne nel mondo che si levano ogni giorno con la loro partecipazione quotidiana e regalano alle loro comunità le competenze più vere e più utili, quelle nate dall’esperienza, incarnando quell’I care troppo spesso vomitato a sproposito da bocche non sciacquate.

Anna Molinari

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