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eDNA, la biodiversità impigliata nei filtri dell’aria
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Foto: Pexels.com
Che la biodiversità a livello globale non se la passi per niente bene, lo sappiamo più o meno tutti. Chi pensa che il mondo dipenda solo dalla presenza degli impollinatori e soprattutto dalle simpatiche api, chi va pazzo per i fiori, chi per i ghiacciai, chi per i cetacei o per i selvatici, chi per le alghe o la barriera corallina: a prescindere da quale aspetto ci sembri più importante, dovremmo sempre ricordarci che sono proprio tutti questi ambiti interconnessi a determinare le nostre possibilità di sopravvivenza e non un singolo fattore o una singola specie. Lo evidenzia bene il WWF nel suo Living Planet Report 2022, dove si stima un declino generale delle specie del 69% dal 1970 a oggi.
L’importanza della tutela della biodiversità è trasversale agli ecosistemi come il disegno che accomuna una serie di matrioske inserite l’una dentro l’altra, e il monitorarne l’andamento è fondamentale per capire come agire – e poi, auspicabilmente, per agire davvero: dalle fototrappole ai campionamenti, conoscere caratteristiche qualitative e quantitative di un determinato contesto o habitat è, oltre che profondamente interessante, fortemente indispensabile. Ma quantificare la biodiversità è una sfida non da poco e operare un continuo monitoraggio sul suo andamento è impossibile su quasi tutte le scale per la mancanza di dati e indicatori standardizzati.
Uno dei parametri che si sta però rivelando significativo proprio per il monitoraggio della biodiversità e di molte specie è il DNA ambientale (eDNA). Si tratta di analisi che vanno a sostegno di altri tipi di monitoraggi e che rilevano piccole quantità di materiale genetico rilasciato o disperso in un ambiente specifico dagli esseri viventi. Di solito sono monitoraggi volontari in cui si scelgono habitat specifici e si analizzano. A volte però capita che alcuni elementi funzionali a nuove analisi emergano in maniera fortuita. È il caso dei normali filtri delle stazioni di monitoraggio dell’inquinamento atmosferico, dai quali è possibile catturare elementi genetici dispersi nell’aria.
Lo ha scoperto uno studio pubblicato sulla rivista scientifica Current Biology, dove il gruppo di ricerca guidato dall’ecologa molecolare Elizabeth L. Clare ha rilevato la possibilità di monitorare la flora e la fauna del mondo analizzando il DNA degli organismi presente nell’aria. Una scoperta che li ha resi comprensibilmente entusiasti perché da filtri già installati e presenti in numerose località per il monitoraggio della qualità dell’aria può derivare anche la possibilità di conoscere in maniera accurata altre specie, nuove e rare, che andrebbe a integrare i risultati raccolti dalle valutazioni di copertura forestale. Contemporaneamente, questa tipologia di monitoraggio va anche a confermare l’utilità dei campioni del DNA ambientale, finora raccolti prevalentemente dal suolo e dall’acqua con lo scopo di mappare in maniera sempre più esaustiva la presenza di specie rare o in via di estinzione, come per esempio il tritone crestato (Triturus cristatus) nel Regno Unito, la carpa argento (Hypophthalmichthys molitrix) negli USA o il gambero di fiume (Austropotamobius pallipes), recentemente salito agli onori delle cronache anche in Italia.
Lo studio si è concentrato su due stazioni di monitoraggio della qualità dell’aria nei dintorni di Londra ed Edimburgo, progettate per controllare la presenza di inquinanti atmosferici come piombo e altri elementi che restano intrappolati negli appositi filtri. Estraendo e sequenziando da questi filtri, a intervalli di tempo specifici, anche l’eDNA e confrontandolo con i risultati del database della GenBank, una collezione di tutte le sequenze di DNA pubblicamente disponibili, i ricercatori hanno scoperto la presenza di oltre 180 specie tra vertebrati, artropodi, piante e funghi.
Il vantaggio di questo tipo di monitoraggio è che stazioni di rilevamento della qualità dell’aria sono già presenti in molte parti del mondo e, conservandone i filtri dopo l’analisi dell’aria e passandoli ai team di ecologi si può potenzialmente derivare una serie di ricerche molto importanti da attività che sono già in essere a livello di routine e creare una rete interconnessa di analisi che possono fornire informazioni molto preziose e accurate rispetto all’andamento della biodiversità e alla possibilità di miglioramento del campionamento e della raccolta di dati sul lungo periodo.
Rimane da capire bene come gestire le tempistiche, soprattutto per quello che riguarda la raccolta del materiale prima che si degradi, ma la direzione intrapresa lascia intravedere risultati molto interessanti, che non riguardano la densità di una specie, ma eventi straordinari come per esempio la migrazione degli uccelli in relazione ai cambiamenti climatici: una metodologia che potrebbe dare una spinta significativa alle azioni di conservazione.
Anna Molinari

Giornalista freelance e formatrice, laureata in Scienze filosofiche, collabora con diverse realtà sui temi della comunicazione ambientale. Gestisce il progetto indipendente www.ecoselvatica.it per la divulgazione filosofica in natura attraverso laboratori e approfondimenti. È istruttrice CSEN di Forest Bathing. Ha pubblicato i libri Ventodentro (2020) e Come perla in conchiglia (2024). Per la testata si occupa principalmente di tematiche legate a fauna selvatica, aree protette e tutela del territorio e delle comunità locali.