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Una vi(t)a semplice
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Foto: M. Canapini
Il progetto "L’ovale storto" è un pellegrinaggio sui campi da rugby italiani, con lo scopo di condividere e raccontare le capacità riabilitative, propedeutiche e inclusive della palla ovale, attraverso temi (e storie) quali omofobia, disabilità, carcere. Utenti psichiatrici, malati di Parkinson e adolescenti di periferia ne sono i protagonisti.
Casalino: divido un piatto di panissa con un signore muto, aspettando l’ennesimo trenino per Milano. Il confine è malleabile, la campanella d’acciaio della stazione risucchia rumori esterni con il ticchettio serrato di un telegrafo.Alle ore 13.00, negli uffici della Direzione, al secondo piano del carcere di Bollate, si respira ordine e disciplina, interrotti da picchi di svogliatezza mal celati. Le facce sature di Paolo Borsellino e Giovanni Falcone sorridono dall’interno di una cornice in metallo. Fuori dalla finestra, giù nello spiazzale gonfio di camionette bianche-blu, spicca l’ingresso di “InGalera”, primo e unico ristorante italiano a sorgere dentro le mura grigie di una gattabuia. Con un sorriso, la guardia di turno ci elargisce i lasciapassare plastificati, con i quali «È facile entrare, ma senza risulta pressoché impossibile uscire da qui» rammenta serio, quasi premuroso Sergio Carnovali, presidente dell’Associazione sportiva Rugby Milano. Il lunghissimo corridoio che conduce al campo da gioco ci inghiotte e deforma. «Insieme a Federico Pozzi e grazie al supporto di Edison e di tanti amici, (volontari e giocatori vicini al Milano Rugby) da marzo 2013 portiamo avanti il progetto rugby e carcere, denominato, visto il luogo, “Rugby Bol”» racconta Sergio elargendo pacche e forti strette di mano ai detenuti già noti. «Da sette anni siamo presenti pure al carcere minorile Beccaria e solo ultimamente stiamo prendendo piede anche al San Vittore. L’obiettivo è comune: divertirsi, confrontarsi sui temi della lealtà, del rispetto e della disciplina, praticare uno sport collettivo e soprattutto aiutare a combattere il senso di solitudine dei ragazzi rinchiusi, che spesso rischia di diventare disperazione. Vedo il rugby un po’ come una filosofia di vita: principi come il sacrificio e la solidarietà potrebbero realmente aiutarli nella vita di tutti i giorni, non solo in cella». Il progetto coinvolge circa trenta carcerati che svolgono regolari allenamenti e partite, sia all’interno della struttura che all’esterno, grazie a un’amichevole annuale indetta sempre nella seconda metà di giugno, presso il centro sportivo G.B. Curioni. Barbari Bollate è il nome della squadra, scelto dagli stessi giocatori per sottolineare le diverse culture che si incontrano nella casa di reclusione.
Nel rettangolo erboso intriso di umidità e moscerini, privo dei consuetudinari pali ad H, ci attendono circa una decina di giocatori vestiti con abiti da battaglia. Oltre le mura spesse della fortezza, si scorgono di un soffio le rovine inutilizzate dell’Expo, lasciate da tempo a marcire. Karim ha sempre amato il calcio, ma ciò non gli ha impedito di avvicinarsi alla palla ovale. Ripenso alla prima volta che varcai un campo da rugby; il mio allenatore, un uomo basso e robusto con due folti baffi neri mi disse: «Attento, il rugby è un brutto malanno. Una volta provato, non potrai più farne a meno». Un po’ come quella storia che il rugby è una malattia e come tutte le malattie, un po’ ti consuma e un po’ ti rende più forte. Anche Karim dunque è una delle tantissime anime affette dal morbo ovale. Ha guardato il rugby come si guarda una bestia amorevole. Gli è piaciuto, si è avvicinato, e ora (un po' per le circostanze, un po' per effetto) non ne può più fare a meno.«Aspetto tutta la settimana pensando al lunedì, giorno in cui posso sfogarmi, dare tutto in campo e buttare fuori la rabbia accumulata, incanalandola in qualcosa di rispettoso e costruttivo come il rugby» dice invece Julian, sguardo severo e berretta di lana nera traboccante sudore. «La prima cosa che perdi in carcere» m’informa «sono gli affetti. Certo, Bollate è uno dei migliori carceri in Italia, un lusso rispetto ad altre strutture. Grazie all’articolo 21 della Costituzione alcuni di noi possono uscire per svolgere un’attività lavorativa, solitamente presso una cooperativa sociale della zona, ma ciò non toglie il senso di inadeguatezza che proviamo. Ti ritrovi solo, e pensi che lo sarai anche quel giorno in cui finalmente uscirai di qua. La cella ti prosciuga, si riassume tutto nella mancanza di libertà. Da giorni sono in attesa di una chiamata da parte della cooperativa o dal call center, sperando in una borsa lavoro. Nel frattempo dormo male, vivo male, passo il tempo male, ma essendo dentro da quattro anni per fortuna sono cresciuto letteralmente con il progetto rugby. Sebbene non abbia mai visto una palla ovale prima di questa esperienza me ne sono subito innamorato». Sergio impartisce esercizi, Federico ne prende parte dando una mano ai novizi. Qua e là il campo è decorato da poltiglie di escrementi equini. Dentro al penitenziario c’è difatti un maneggio che accudisce trentotto cavalli requisiti dai maltrattamenti di privati o dal business delle corse illegali. Dal lato ovest sbuca in ritardo Zen, un ragazzone albanese di 104 chili con bicipiti grossi come pagnotte, impegnato a dare l’acqua agli ortaggi dell’orto fino a pochi minuti prima. Snocciola qualche pensiero sparso giocherellando con l’ovale targato FIR: «Il rugby mi piace perché si combatte. Mi sento iperattivo in ogni momento e ciò è stimolante per il mio fisico». Poi si allontana, non deborda, tiene per sé i propri segreti, rivelandoli forse solo all’insalata, in momenti che solo lui sa. Entrato a 18 anni, Zen potrà uscire solamente a 33. Rispettando comunque la prima regola del progetto, ossia non domandare mai il capo d’accusa ai ragazzi, non faccio a meno di pensare all’eternità pragmatica di uno sbaglio, alle traiettorie maligne di un ovale storto.
Le due ore scarse d’allenamento scivolano via nell’odore pungente dello sforzo. Come in ogni campo da rugby che si rispetti ci stringiamo in cerchio, aggrappandoci alle maglie dei vicini. «Spesso fantastico che gli esseri umani risolvano guerre e problemi in campi come questo. Sarebbe un bel rimedio alle bombe» confida Luca, un ragazzo basso e robusto sulla soglia dei 40. Sulle braccia dei presenti corrono tatuaggi confusi di rosari, scudetti, donne, nomi, fiori, tribali. Cogli stralci di vita impressi nella carne: tradimenti, sogni, rese di conti. «Di notte spesso sogno un viaggio fatto in Perù quand’ero ragazzo. Mi manca viaggiare. Quando uscirò vorrei ritagliarmi una vita semplice, a contatto con la natura. Spesso mi sono sentito dire che chi nasce tondo non può morire quadrato. Non ci ho mai creduto. Con il rugby in un certo senso sono rinato. Rinato ovale» ribadisce ancora Luca a testa bassa, come se raccontasse un dettaglio intimo di se stesso a se stesso. Nel marasma di battute, schiamazzi e offese bonarie calano lapidarie le parole di Sergio: «Capiamo la frustrazione di trovarsi in una cella ma dovete tenere duro, lo studio e il buonsenso uniti al rispetto sono basamenti essenziali sia in campo che nella vita». Qualcuno annuisce. Dopo numerosi chiavistelli, una ventina di telecamere superate e tre portoni blindati aperti respiriamo, fuggiaschi, nel parcheggio mezzo vuoto di fronte al carcere. Ognuno va per la sua strada, dandoci frettolosamente appuntamento per la fine di giugno, data in cui i Barbari Bollate sfideranno per il terzo anno consecutivo alcuni volontari e vecchie glorie del Milano Rugby. In un minuscolo bar con fattezze di capanna, un cameriere sbatte al vento tovaglie sporche, regalando al cielo dolci rimasugli del pan dei morti. Le briciole si guadagnano la libertà verso l’ora del tramonto, ora in cui Bollate scompare in un pulviscolo rossiccio.
In giugno i Barbari Bollate battono la delegazione esterna di volontari ed ex rugbisti per sei mete a due. Sergio e Federico torneranno a Bollate solo dopo l’estate, tempo di stasi e maturazione. Acciaccati, marcio con Filippo (rugbista ancor prima di venire al mondo) fino all’uscita del tunnel: «Il bello di questi progetti sociali è la capacità che hanno di farti scordare il contesto. Non detenuti, ma ragazzi come noi. Una battuta come può essere “occhio a non rubare la palla” non diventa un’offesa né fonte di nervosismo ma un modo per prendersi in giro insieme, ridere e divertirsi, tentando di scordarsi per un po’ la condizione in cui si vive. L’ironia è un ottimo strumento per scrollarsi di dosso condizioni al limite dell’umano. In più, nonostante le campagne elettorali fondate sull’odio e la multiculturalità presente a Bollate, l’integrazione reale (ossia lo stare insieme) ha conseguenze positive sul tasso di detenzione. Ad esempio se nel 2003 su ogni 100 stranieri residenti in Italia l’1,16% finiva in carcere, oggi questo accade solo allo 0,39%. Un dato straordinario in termini di sicurezza collettiva che mostra come ogni allarme, artificiosamente alimentato durante la campagna elettorale sia ingiustificato. Ho letto di come maggiore è il tempo d’insediamento in Italia, minore è il numero dei detenuti che una comunità esprime. Ciò accade in quanto quella comunità diventa parte integrante della nostra società e, di conseguenza, diminuisce il rischio per i suoi membri di finire in carcere. Ragiono in questi termini: riscoprirsi comunità attorno ad un ovale». Sergio il curandero ci congeda con umiltà: «Bene, vi ringrazio per l’aiuto. Puntate sempre in alto e non smettete di credere ai sogni». È tutto lì il segreto: non uscire ai segnali, ascoltare chi incontri per strada, seguire i rimbalzi per quanto irregolari.
Matthias Canapini
Matthias Canapini è nato nel 1992 a Fano. Viaggia a passo lento per raccontare storie con taccuino e macchina fotografica. Dal 2015 ha pubblicato "Verso Est", "Eurasia Express", "Il volto dell'altro", "Terra e dissenso" (Prospero Editore) e "Il passo dell'acero rosso" (Aras Edizioni).






