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Senegal: dove il confinamento fa più paura di COVID-19
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Foto: L.Michelini ®
La cosa peggiore è vedere gli altri che partono. L’Ambasciata francese continua ad organizzare voli di rientro per i suoi cittadini bloccati a Dakar, direzione Parigi.
Sono in attesa di un volo organizzato dalla Farnesina per tornare a casa, in quarantena per due settimane, ma a casa. Già, perché quando sei distante dai tuoi punti di riferimento esistenziali che si ritrovano improvvisamente travolti da una pandemia di queste dimensioni, l’unica cosa che vuoi è raggiungerli. Punto.
“Non è suggerito viaggiare, stai qua. Il Senegal è più sicuro! Se torni in Italia ti ammali”, mi sento dire più volte da amici e colleghi. Hanno ragione. Avrebbe più senso chiudersi in casa per un paio di mesi ed aspettare che il velo di morte che ricopre l’Europa se ne vada, sperando che non arrivi in Africa. Invece è già arrivato.
In Senegal, da questa settimana, vige il divieto assoluto di spostarsi da una regione all’altra, c’è il coprifuoco dalle 20 alle 6 e le frontiere aeree sono chiuse. La sera le strade diventano buie e assurdamente silenziose. Per una città piena di suoni come Dakar è uno shock.
Siamo a fine marzo e apparentemente “La Malattia”, come viene soprannominata, è ancora lontana. Scambiando due parole con la gente del posto si capisce che il pensiero va all’Europa, all’Italia, alle difficoltà che i continenti “occidentali” stanno fronteggiando. Ma le reazioni sono le più differenti: chi non ci fa troppo caso, chi invece ha smesso definitivamente di uscire di casa. Nel frattempo, il tormentone del momento è “Tanto la popolazione africana è giovane, si salverà, in più qua fa caldo e i virus non sopravvivono alle alte temperature”. Penso all’insicurezza alimentare, alle condizioni igienico-sanitarie inesistenti per la maggior parte del Paese, a chi non ha una dimora, alle famiglie senza tetto, ai nomadi della steppa.
Metto la mascherina ed esco di casa. Ripercorro la strada che facevo tutti i giorni per andare al lavoro. Cerco di prestare attenzione ai dettagli, voglio fissare nella mente le differenze, come in quei giochi da settimana enigmistica che si fanno al mare, sotto l’ombrellone. Ma in questo caso non ci vuole un occhio poi così esperto per constatare che, oggi, Dakar è un’altra. Le immigrate guineane che fino a ieri vendevano quantità abnormi di arachidi sono sparite e non si sente più nell’aria il profumo dolce del caffè touba. Penso alle cose che avrei voluto fare, riempirmi la testa di dreadlocks, comprare una porzione di fataya fritta, scambiare un’ultima chiacchierata col vecchio venditore di kenkeliba. Non sono neppure riuscita a salutarlo.
Tuttavia, la differenza più grande, e silenziosa, è l’assenza dei bambini di strada. Fino a pochi giorni fa, pandemia o no, i talibè erano ancora al lavoro, a mendicare lungo le strade sporche del Paese. Oggi non ci sono più. A quanto pare il Ministero delle Donne ha da poco avviato un progetto per il loro reinserimento nelle famiglie di origine togliendoli così una volta per tutte dalla strada. È inevitabile domandarsi se bisognasse aspettare una pandemia globale per ricordarsi che più di 100.000 bambini vivono senza famiglia e sono spesso maltrattati. E poi, ce la farà lo Stato a gestire un progetto tanto ambizioso?
Compro il giornale. Analisi statistiche mostrano i dati in continuo aggiornamento, i contagiati, i guariti. Si conta cercando di prevedere l’evoluzione della pandemia in Senegal. Domenica 22 marzo, quarantasette persone contagiate, giovedì 26, novantanove, sabato 28, centotrenta. Si inizia a ventilare la possibilità di un confinamento totale.
Dalle pagine dell’Observateur (n. 4944 del 22.03.2020), il sociologo Ousmane Ndiaye offre un quadro razionale e crudo sulla situazione che verrà. Secondo Ndiaye la società senegalese non è preparata per un confinamento. In caso di isolamento forzato la gente si troverà costretta a sfidare le forze dell’ordine per procurarsi da mangiare. È la struttura della società che fa sì che i senegalesi non siano pronti. Basta vedere come si vive nei quartieri, in una casa si possono trovare anche venti persone in una promiscuità indescrivibile. In Senegal ci sono differenti categorie socioculturali, c’è la gente agiata, la “borghesia”, che sicuramente si può permettere di vivere un confinamento. Ha di che sopravvivere, mezzi per distrarsi. Non ne risentirà troppo, neanche a livello psicologico, ma questa è un’infima parte della popolazione. Appena sotto, ci sono i funzionari, gli impiegati, ma anche molti dottori e insegnanti, che vivono con risorse sufficienti, ma a tratti limitate. Per arrivare a fine mese, spesso si aiutano con attività economiche aggiuntive, in nero. Loro risentiranno in parte degli effetti dell’isolamento, ma a livello psicologico avranno una comprensione sufficientemente chiara per affrontare la situazione.
Scendendo ancora di fascia sociale si trova chi veramente vive in uno stato di precarietà quotidiana, operai, piccoli impiegati e ambulanti (un muratore a Dakar guadagna intorno ai 2-3.000 F CFA al giorno, circa 4 euro). Loro rappresentano la maggior parte dei senegalesi e non sono per nulla pronti a questa eventualità, né su un piano ideologico, né materiale. Saranno i primi a prendere il rischio di sfidare le autorità, uscire e contrarre il virus diffondendolo nella società. Sempre secondo Ndiaye, ci sono le premesse per una catastrofe, sanitaria e civile.
E stiamo parlando della capitale. Nei villaggi, dove la gente è spesso analfabeta, sarà difficile spiegare che tali misure sono necessarie per rompere la catena di trasmissione della malattia. In queste zone mancano i mezzi per un’igiene di base. Non c’è acqua, non c’è sapone. “Questa situazione sarà un rivelatore chiarissimo dello stato di miseria nel quale si trova il Senegal”, mettere in guardia lo studioso.
In tutto questo, si aspetta, come davanti ad una previsione metereologica che mette brutto tempo in arrivo. Un’attesa lunga, irreale, carica di pronostici e paura.
Lucia Michelini

Sono Lucia Michelini, ecologa, residente fra l'Italia e il Senegal. Mi occupo soprattutto di cambiamenti climatici, agricoltura rigenerativa e diritti umani. Sono convinta che la via per un mondo più giusto e sano non possa che passare attraverso la tutela del nostro ambiente e la promozione della cultura. Per questo cerco di documentarmi e documentare, condividendo quanto vedo e imparo con penna e macchina fotografica. Ah sì, non mangio animali da tredici anni e questo mi ha permesso di attenuare molto il mio impatto ambientale e di risparmiare parecchie vite.