Rohingya: è stata pulizia etnica!

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Foto: Unsplash.com

Il trattamento dei Rohingya è “un esempio da manuale di pulizia etnica”. Così si era espresso già nel settembre del 2017 l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umaniZeid Ra’ad al-Hussein, auspicando una commissione d’inchiesta e parlando delle violenze sistematiche perpetrate dal Myanmar nei confronti della minoranza musulmana dei Rohingya, quella  “che nessuno vuole” e contro la quale dal 2012 è partita un’ondata di violenze guidata dalla popolazione con la complicità dell’esercito.  Nel 2018 questa  pesante accusa era stata messa nero su bianco nel rapporto finale della commissione d’inchiesta incaricata dal Consiglio delle Nazioni Unite per i diritti umani (Ohchr) delle indagini sulle violenze etnico - religiose che hanno attraversato gli Stati di Rakhine, Kachin e Shan dove questa brutale operazione ha fatto centinaia di vittime e migliaia di profughi ed è apparsa decisamente sproporzionata rispetto all’offensiva condotta da alcuni gruppi armati di Rohingya dichiaratamente indipendentisti. Dopo aver interrogato 875 vittime e centinaia di testimoni per la commissione era chiaro che “I vertici militari del Tatmadaw birmano [l’esercito del Myanmar], in particolare il comandante in capo Min Aung Hlaing e cinque generali dovrebbero essere processati per aver orchestrato i gravi crimini perpetrati su vasta scala, come omicidi, sparizioni forzate, torture e violenze sessuali”. 

Ma nel documento pubblicato il 27 agosto del 2018 dalla commissione d’inchiesta presieduta dall’ex procuratore generale indonesiano Marzuki Darusman, sotto accusa era finito anche il Governo guidato dal 2015 dalla National League for Democracy (Nld) della leader democratica Aung San Suu Kyi.  Pur riconoscendo il “limitato controllo” che può esercitare sui militari nonostante dal 2016 sia Consigliere di Stato, Ministro degli Affari Esteri e Ministro dell’Ufficio del Presidente, la Kyi è accusata nel rapporto di “aver permesso ai discorsi d’odio di prosperare”, di “aver distrutto prove e documenti” e di “non aver protetto le minoranze dai crimini di guerra e da quelli contro l’umanità”, commessi dall’esercito. Davanti al materiale fotografico, ai video e alle immagini satellitari raccolti dalla commissione durante le indagini, il Governo guidato della Kyi ha sempre respinto la maggior parte delle accuse sulle presunte atrocità commesse dalle Forze di sicurezza contro i musulmani Rohingya, ricordando l’impegno nella costruzione dei centri per riaccogliere in Rakhine i profughi Rohingya fuggiti in Bangladesh. Una difesa che non ha convinto l’Assemblea generale delle Nazioni Unite che il dicembre scorso ha approvato con 134 sì, 9 no e 28 astensioni su 193 Paesi rappresentati, una risoluzione che condanna le violazioni dei diritti umani perpetrati dalla ex Birmania contro la minoranza musulmana dei Rohingya

L’Assemblea ha rinnovato l’invito al Governo del Myanamar a combattere qualsiasi forma d’incitamento all’odio contro tutte le minoranze a cominciare proprio dai Rohingya, considerati semplici “migranti illegali” del vicino Bangladesh, paese dove oggi in alcuni campi profughi vivono circa 700.000 di Rohingya, costretti a lasciare la Birmania negli ultimi tre anni. Per questo la Corte Penale Internazionale dell’Aja (Cpi), su denuncia del Gambia e con il recente sostegno dei Paesi Bassi e del Canada, ha istruito dallo scorso anno un’inchiesta per “genocidio” nei confronti della Birmania, un’accusa che la Kyi, ex Nobel per la Pace, ha respinto al pari dell’ex ambasciatore birmano all’Onu, Hau Do Suan, che ha definito il documento di condanna “un altro classico esempio di due pesi e due misure, che applica principi sui diritti umani in modo parziale e discriminatorio” per “esercitare pressione politica sulla Birmania”. Eppure lo scorso mese due soldati dell'esercito del Myanmar, hanno confessato dettagliatamente le atrocità commesse dalle rispettive unità di fanteria contro la popolazione civile Rohingya in Myanmar. Secondo un rapporto dell’ong thailandese per i diritti umani Fortify RightsMyo Win Tun appartenente al Battaglione di fanteria leggera 565 e Zaw Naing Tun del 353 Battaglione di fanteria leggera, hanno confessato presso la Cpi all’Aia ciò che già si sapeva grazie alle testimonianze dei sopravvissuti: “nel 2016 e nel 2017 il governo del Myanmar ha condotto una campagna di genocidio contro i Rohingya”. 

Secondo l’Associazione per i popoli minacciati (Apm) queste recenti dichiarazioni devono portare rapidamente ad una formale accusa nei confronti dei responsabili dell’esercito e del Governo davanti alla Cpi, che ha considerato le dichiarazioni dei due soldati autentiche visto il ritrovamento di due fosse comuni nei luoghi indicati dai due ex militari. “Nelle loro dettagliate confessioni, i due militari hanno ammesso il loro diretto coinvolgimento in 180 omicidi di Rohingya. Hanno anche fornito i nomi e i gradi dei comandanti che hanno ordinato l’uccisione, lo stupro e l’incendio di innumerevoli villaggi rohingya”. I due soldati, che appartenevano a differenti unità, hanno ricevuto l’ordine di uccidere tutti i Rohingya incontrati nei villaggi e possiamo supporre che molte altre unità Tatmadaw abbiano ricevuto lo stesso ordine e lo abbiano eseguito nello stesso modo. Per l’Apm “L’ammissione dei due militari sotto custodia del tribunale all’Aja può essere un segnale importante e incoraggiare altri colpevoli in Myanmar a testimoniare anche davanti a un tribunale internazionale. La Cpi ha un programma di protezione dei testimoni, anche per i cosiddetti “testimoni interni”, disciplinato dall’articolo 68, comma 1 e dall’articolo 43, comma 6 dello statuto del tribunale”. 

Ora più che mai anche dall’Unione Europea ci si aspetta una presa di posizione contro il Myanmar, che a questo tentativo di genocidio ha fatto precedere  decenni di repressione, privazione dei diritti e propaganda d’odio contro i Rohingya. “Solo la condanna internazionale dei crimini e delle sanzioni nei confronti dei responsabili può cambiare la situazione. Solo quando ai Rohingya verranno garantiti giustizia e sicurezza, la sofferenza di quel popolo potrà finire. Solo allora potranno tornare a casa le centinaia di migliaia di profughi internati in campi disumani. Solo allora il Myanmar potrà aprire un nuovo e più pacifico capitolo della sua storia” ha concluso l’Apm.

Alessandro Graziadei

Sono Alessandro, dal 1975 "sto" e "vado" come molti, ma attualmente "sto". Pubblicista, iscritto all'Ordine dei giornalisti dal 2009 e caporedattore per il portale Unimondo.org dal 2010, per anni andavo da Trento a Bologna, pendolare universitario, fino ad una laurea in storia contemporanea e da Trento a Rovereto, sempre a/r, dove imparavo la teoria della cooperazione allo sviluppo e della comunicazione con i corsi dell'Università della Pace e dei Popoli. Recidivo replicavo con un diploma in comunicazione e sviluppo del VIS tra Trento e Roma. In mezzo qualche esperienza di cooperazione internazionale e numerosi voli in America Latina. Ora a malincuore stanziale faccio viaggiare la mente aspettando le ferie per far muovere il resto di me. Sempre in lotta con la mia impronta ecologica, se posso vado a piedi (preferibilmente di corsa), vesto Patagonia, ”non mangio niente che abbia dei genitori", leggo e scrivo come molti soprattutto di ambiente, animali, diritti, doveri e “presunte sostenibilità”. Una mattina di maggio del 2015 mi hanno consegnato il premio giornalistico nazionale della Federazione Italiana Associazioni Donatori di Sangue “Isabella Sturvi” finalizzato alla promozione del giornalismo sociale.

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